giovedì 23 giugno 2016

La sarta di Dachau

La sarta di Dachau, Mary Chamberlain

Sono solo una ragazza.
Qui ci sono freddo e paura.
Ma io ho un sogno
e nessuno me lo può strappare.

Ada Vaughan modiste, abiti perfetti che fasciano un corpo snello, rossetto e ticchettio veloce, sognatrice instancabile. Suor Clara sepolta in un abito logoro e informe, che vive e respira la morte intorno e dentro di lei, Ava Gordon incantevole e seducente, nel suo abito blu aperto sulla schiena, una nuvola di chiffon azzurro, una sigaretta tra le labbra e un White lady da assaporare lentamente. Una donna poliedrica, dalle mille sfaccettature, una donna che ha sofferto troppo e per questo pericolosa.
Questo romanzo racconta la sua storia.
I sogni, il coraggio, la tenacia di una giovane e ambiziosa sarta inglese che vuole allontanarsi dalla miseria e dallo squallore che ti si attacca addosso come un odore malsano e farsi strada nel mondo, diventare qualcuno, una stilista famosa e di successo. Bella e determinata, capace di creare abiti incantevoli come per magia. Eppure dal mondo della sartoria, degli abiti eleganti, della seta preziosa, si troverà suo malgrado catapultata in mezzo all'orrore della seconda guerra mondiale e della prigionia. La trama è avvincente, questo libro ti incolla alle pagine lasciandoti col fiato sospeso e l'ansia di sapere come andrà a finire. Lo stile è semplice, fluido, scorrevole.
La prima parte mi è piaciuta molto, la storia della giovane Ada, una ragazza determinata, piena di sogni, speranze, ma saranno proprio i sogni, la sua ingenuità e la fiducia malriposta a gettarla nel baratro. E ancora il suo coraggio tra macerie, bombardamenti e cadaveri, la lotta faticosa per la sopravvivenza, il duro lavoro, lei una ragazza stremata, ridotta pelle e ossa che riesce a creare abiti meravigliosi nella prigione di Dachau tra schiaffi e stenti. E' questo il solo modo che ha per sentirsi ancora un essere umano, riuscire a plasmare da mediocri scampoli di stoffa abiti da sogno per donne algide e perfide, le compagne dei comandanti del campo, le loro amiche e perfino un abito nero con una rosa rossa per una signora gentile, che le rivolge la parola, le fa i complimenti, sembra vedere in lei per la prima volta un essere umano. Eppure...
La seconda parte descrive il faticoso ritorno alla vita, l'agognata salvezza dopo tanto orrore, il rientro in Inghilterra, Ada la sopravvissuta all'internamento, la ragazza fortunata. Questa parte mi ha lasciata un po' perplessa. Anni e anni di sofferenza sembrano non averle insegnato nulla, Ada è ancora lì con i suoi sogni ingenui, continua a fidarsi di bastardi da cui dovrebbe stare alla larga, non riesce a bastare a se stessa, si invischia in affari illeciti, fino al tragico epilogo. Il punto di vista è sempre quello della protagonista, il lettore scopre la verità con lei poco a poco ed è questo che avvince e inchioda alla pagina, sei lì con lei incredulo e sgomento, sperando fino alla fine in un miracolo, che quella giostra impazzita di dolore e malvagità si fermi e che ci sia almeno un uomo degno di questo nome, un uomo di cui fidarsi. E invece menzogne, inganni, illusioni infrante, sogni spezzati e calpestati, uomini nauseanti, personaggi rivoltanti e meschini. E quando tramonta anche l'ultima flebile speranza e la verità distorta trionfa su tutto non rimane alcun appiglio, se non sprofondare nel nero abisso. Ada una eroina tragica vittima dei propri sogni impossibili e di un mondo senz'anima.

"Ecco che cosa facevano quegli avvocati, pensò Ada : mostravano i fatti fuori dal loro contesto, facendoli pendere da una parte sola come un quadro appeso storto sul muro, o distorcendoli come nello specchio deformante di un luna park."

martedì 21 giugno 2016

Dopo di te

Dopo di te (Jojo Moyes)

"Non si sa mai cosa può succedere quando si cade da una grande altezza."

Non mi convinceva molto l'idea di un sequel, soprattutto se il primo libro (Io prima di te) è stato emozionante, coinvolgente e perfetto con quel finale tremendo ma risolutivo, si rischia sempre di perdere qualcosa, di rimanere delusi. Tuttavia dopo averlo visto in libreria non ho resistito e l'ho acquistato.
Questo libro si legge in poco tempo, è scritto con ironia e levità, senza toni melodrammatici, va letto tuttavia dimenticando quello che si è provato leggendo l'altro. Non accadano miracoli, Will non c'è più, ha lasciato in quanti gli hanno voluto bene una scia di dolore che non va via.
Sono passati 18 lunghi mesi, ritroviamo una Lou cresciuta, sommersa dal dolore come una lenta e inesorabile marea, ora vive da sola, lavora in un anonimo bar vicino all'aeroporto, ha messo la sua vita in standby, non ha alcun progetto per il futuro, perché il dolore è forte e nulla sembra poter essere più come prima. Però le cose possono cambiare, con incontri inaspettati e sconvolgenti, una ragazzina ribelle di sedici anni che ti piomba in casa all'improvviso (Lily),un affascinante paramedico (Sam) che ti salva letteralmente la vita quando scopri che no, non sai volare dai tetti. A poco a poco nonostante la sofferenza per la perdita subita, Lou sente il bisogno di tornare a sentirsi viva, di ridere, ballare, amare. Un istinto vitale che ti fa andare avanti, che inizialmente è pura sopravvivenza a giorni che si succedono tutti uguali e poi diventa di nuovo vita, meravigliosa vita. Nell'insieme questo libro mi è piaciuto perché racconta il lento e faticoso ritorno alla vita di una giovane donna, come riuscire a superare la perdita della persona amata, come imparare a lasciarla andare, senza sentirsi in colpa se tu sei viva e lui no, se malgrado la sofferenza che hai nel cuore vuoi tornare a vivere davvero, assaporando ogni singolo istante, anche ballando tutta la notte spegnendo per una volta il cervello, senza porsi troppe domande. E soprattutto Lou si innamorerà di nuovo di un uomo solido, concreto, sui cui può contare sempre e capirà che questa volta lei può essere abbastanza, un ottimo motivo per restare. Una lettura piacevole, scorrevole, una scrittura semplice, ironica, lineare, leggera, senza troppe pretese, una storia che va letta se siamo curiosi di sapere cosa è successo dopo, dimenticando l'atmosfera del primo libro perché quelle emozioni lì non torneranno, sono evaporate via con Will di cui talvolta si respira ancora l'evanescente presenza tra le pagine.
Nota negativa: ho trovato la trama un po' inverosimile e il finale deludente, dopo innumerevoli peripezie mi aspettavo un epilogo diverso.

"Qual è stata la parte più difficile ?"chiese.
"Scusi?"
"Nel lavoro con Will Traynor. Mi sembra di capire che è stata una sfida piuttosto impegnativa.
Esitai. Nella stanza d'un tratto calò il silenzio. "Lasciarlo andare "dissi. E, inaspettatamente, mi trovai a dover ricacciare indietro le lacrime.



martedì 14 giugno 2016

Libertà


Libertà, Franzen

"Tu sei brava a raccontare storie, perché non gli racconti una storia?"

Una donna è seduta sui gradini di una veranda, rannicchiata, immobile, a testa bassa. Un uomo arrabbiato le urla di andare via, non intende infrangere la regola del silenzio e dell'isolamento che lo protegge da tutto il dolore che c'è là fuori. Fa molto freddo, tra loro una porta, il buio, una casa su un lago immerso nella natura, anni e anni di amore, rabbia, silenzi e ora attesa. Alla fine il mondo è arrivato con il suo bagaglio di ricordi, sofferenza, vita da vivere adesso, prima che sia troppo tardi. Un uomo e una donna , Patty e Walter Berglund, il giorno in cui si sono incontrati è stato il giorno migliore e peggiore della loro vita. E poi i loro figli, Joey indipendente e testardo, Jessica matura e responsabile e tutti gli altri personaggi Connie tenace e fragile nel suo amore che è quasi una dipendenza, l'unica cosa di cui le importi davvero, Lalitha bella e appassionata, Richard il musicista sregolato che suona seguendo il ritmo delle proprie passioni.
Al centro del romanzo c'è ancora una volta la famiglia, tema prediletto da Franzen, le sue complesse e perverse dinamiche, la crisi di una coppia, il burrascoso rapporto tra genitori e figli, il tradimento, la gelosia, l'amicizia di un'intera vita. E ancora la lotta per la difesa dell'ambiente, la salvaguardia delle specie in via di estinzione, la tutela utopica di un pianeta super affollato che si sta autodistruggendo, la politica corrotta e bugiarda, la sporca guerra in Iraq, l'America che si risveglia bruscamente dal suo sogno di libertà mentre le torri bruciano. Cos'è la libertà? Vivere al meglio la propria vita? Realizzare i propri sogni? Distruggersi? Libertà di farsi o fare del male? di scendere o non scendere a compromessi? Qual è il prezzo che paghiamo per la nostra libertà? Siamo poi davvero liberi o legati da invisibili catene ideologiche, politiche, affettive? Liberi e prigionieri di noi stessi, dei nostri difetti, ossessioni, nevrosi.
Al centro di tutto questo un uomo e una donna, Patty campionessa di pallacanestro al college, madre affettuosa e apparentemente appagata dal suo ruolo, competitiva, ironica, insoddisfatta, depressa, una donna che ha commesso molti errori. Walter un uomo buono, gentile, un puro di cuore, che da sempre ama e difende la natura, la sua rabbia, la sua solitudine, i suoi ideali, un don Chisciotte senza armatura e dalle guance rosee.
Una scrittura impeccabile, avvincente, diretta, a tratti ironica, che conquista e appassiona. Franzen non delude il lettore mettendo in scena una storia familiare d'amore, ferite inferte vicendevolmente e voglia di ritrovarsi malgrado il tempo abbia lasciato le sue cicatrici. Una storia che è anche la nostra storia.

“ Tutto gira intorno allo stesso problema, le libertà personali, – disse Walter. – La gente è venuta in questo paese per cercare soldi o libertà. Se non hai soldi, ti aggrappi ancora piú rabbiosamente alle tue libertà. Anche se il fumo ti uccide, anche se non puoi permetterti di nutrire i tuoi figli, anche se i tuoi figli vengono ammazzati da un pazzo armato di fucile d’assalto. Sarai anche povero, ma l’unica cosa che nessuno ti potrà mai togliere è la libertà di sputtanarti la vita come ti pare e piace.”

"E allora smise di guardare i suoi occhi e cominciò a guardarvi dentro , ricambiandone lo sguardo prima che fosse troppo tardi, prima che quel legame tra la vita e l'aldilà andasse perduto, e le mostrò tutta l'abiezione che aveva dentro, tutto l'odio moltiplicato di duemila notti solitarie, mentre entrambi erano ancora in contatto con il vuoto in cui la somma di tutto ciò che avevano detto e fatto, di tutto il dolore che avevano inflitto, di tutte le gioie che avevano condiviso, pesava meno di una minuscola piuma nel vento.
-Sono io, disse lei. Solo io.
-Lo so , disse lui e la baciò."


lunedì 6 giugno 2016

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"Vorrei portarti con me.
Resisteresti poco, al freddo senza l’afa estiva ma sarebbe un’esperienza diversa, no? Poi ti riporterei indietro, come è giusto che sia. Ma per un po’ ti porterei con me.
Ti racconterei le cose che non avrò il tempo di finire di dirti. Solo per quello, per trovare il modo che duri di più. Ti farei guardare il mare freddo, così apprezzeresti il tuo. Ti farei una foto e la lascerei nel cassetto per le volte che avrò voglia di guardarti con i capelli scompigliati e il sorriso accennato.
Mangeremmo e dormiremmo poco perché non ci sarebbe il tempo; tutto quello che vorresti cercherei di dartelo. Ti farei esprimere un desiderio e lo esaudirei. Solo uno, perché tre non sarei capace.
Ti farei almeno un paio di domande scomode, perché così ti fideresti di me; perché così, se ti telefonassi almeno una volta, sussulteresti un pochino e quando deciderai di andare via, ci sarà almeno una volta in cui vorrai tornare.
Vorrei che ti fossi innamorata di me, per chiedermi di restare. Ma forse tu impieghi tanto per innamorarti e allora è per questo che vorrei portarti con me: per farti innamorare.
Verresti?
No, non verrei. Perché dovrei?
Non credo che mi riporteresti indietro, non voglio che tu faccia di tutto per me. Il suono è simile a quello della tua voce, non della mia: vorrei che lo capissi e te ne rendessi conto. Le tue parole sono esigenti e mi si stringono al cuore. L’unisono tra di noi non funziona. Il moto di due anime in una non esiste. Non vorrei foto di questo momento, né motivi per lasciare che non finisca. È doloroso da ricordare. Cosa c’è di poetico in una sensazione moritura? Se lo volessi, non farei in modo che arrivi la fine. Perché è questo il punto: io sto facendo in modo che l’ultimo secondo di tutto accada, capisci? Permettimi di dire di no. Permettimi di non esserti accanto. Permettimi di decidere di non esserci come vuoi tu.
Pensare che sia per due, per renderti i pensieri più facili; lo sai che mi stai raccontando una bugia mentre mi chiedi ‘verresti?‘
Certo che lo sai.
Venire? Cosa potrebbe dire? Cosa saremmo?
La mia automobile scivola da sola verso casa mentre rileggo le tue parole. Cerco di trovare interpretazione, tentando di valicare le frasi così come sono – cunei – e trovarci l’intenzione inespressa di dire dell’altro. Cerco titubanze, virgole, mi soffermo sui dettagli. Ma io di dettagli non capisco nulla. Non so come sono fatti, in verità.
Potrei rimanere attaccato alla balaustra a due mani, mangiare tutte le merendine della macchinetta accanto all’ingresso del gate pur di restare a guardare il fiume da un lato e la strada dall’altro.
Fissare l’asfalto fino a farmelo entrare negli occhi e bucarmeli per non vedere la via di casa: questo dovrebbe accadere affinché io vada via da qui e mi rassegni alle tue parole. Credevo di non essere capace di rimanere in silenzio a guardare. Sono solito pensare di me cose molto positive: grande cuore, grande testa, spirito d’iniziativa, forte indipendenza; pensavo di non essere capace di restare a guardare inerme.
È una di quelle circostanze che non si addicono agli spiriti vincenti. È come ammettere di avere un buco scoperto e lasciare che qualcuno ci infili un dito dentro, stracciando carne e tessuti, graffiando vasi, fino a tingere di rosso i vestiti e non poter, così, celare l’affanno.
Eppure io sono un tipo sveglio, non mi lascio abbindolare facilmente; ho sempre saputo tenerle a distanza e prosciugarne il necessario. Ecco, sì: non sono mai andato al di là del necessario con quasi nulla. Solo di foglie d’albero ne ho troppe, perché ne faccio collezione.
Ne ho mangiate molte di merendine della macchinetta ma adesso, alla guida, con le mani poco convinte e smaniose, non ne ricordo il sapore singolo e anche gli incartamenti mi paiono tutti uguali. Non posso distinguere il caramello dal fiordilatte e questi dal cioccolato: ho un solo amalgama appiccicaticcio nella bocca.
Mi sembra strano sentirmi così sopra le righe. Mi sembra strano, ancora, sentire quegli occhi addosso. I tuoi e i miei insieme, che erano altro, lo sono stato lo so, lungo il fiume e poi sono irrimediabilmente scomparsi dopo un battito di ciglia. Un movimento fisiologico ne ha decretato la fine ed io lo vado cercando, adesso, mentre mi dirigo verso casa, seguo la scia per provare a seguirti.
Che pena. Sperare, intendo. È la pena di chi non sa rinunciare.
Non so raccontare una volta in cui tu mi avevi detto di essere felice, in effetti. E nemmeno una volta in cui te l’ho detto io, d’altronde. Non credo minimamente di esserti venuto incontro per davvero, con foga ed eccitazione, per abbracciarti di sorpresa.
Non mi viene in mente la prima volta che t’ho visto. So quand’è, con precisione, perché io ero al bancone di un bar con una ragazza che mi piaceva molto. E che ho abbracciato con slancio e voluto tante di quelle volte da essermene invaghito e addirittura innamorato a un certo punto.
Ricordo d’averti preso in consegna nella mia mente, ma non d’averti visto. Non so nemmeno com’eri vestita. So solo che ti sei passata una mano tra i capelli, il gesto più comune che si possa recuperare nella memoria. Eppure io l’ho registrato. In realtà potrebbe essere falso. Potrei aver traslato la mano di un altro sulla tua e adesso cucirti addosso un movimento che non t’è appartenuto.
Avevi un braccialetto che si compra al mare, di quelli di cotone colorato, che dicono porti fortuna e poi, un giorno, si spezzi per far avverare un desiderio. Di quelli che hanno tutti, eccetto me, poiché io non li sopporto: rimangono bagnati per ore, dopo la doccia, ed umidi sulla pelle.
Mi sono chiesto quale potesse essere il tuo desiderio. È la prima cosa su cui mi sono interrogato guardandoti quella volta e pensandoti i giorni successivi. Se tu avessi un desiderio sopra tutti, se fosse legato a quel braccialetto o a un sentimento. Ho sentito il bisogno di saperlo, come se fosse il tuo nome.
Avevi anche un anello costoso. Sottile, ma prezioso. Un anello facile, che non sorprende se lo regali. Non so perché l’avessi notato. Niente a che vedere coi tuoi occhi, mi rendo conto. A chiunque avessi chiesto di te nei giorni seguenti, continuavo a dire di non avere in mente i tuoi occhi: eppure sono meravigliosi. Non mi viene un’altra parola in mente. Dovrei inventarla ma non sono capace, tu lo sai. Posso fartelo intuire ma non so spiegarlo.
Non capisco perché non me li sono incollati addosso. Avevo notato di te solo i dettagli peggiori fra tutti gli altri; ciononostante ti cercavo già il giorno dopo. Mentre passeggiavo sotto casa tua, nelle sere a seguire, speravo di notare i tuoi movimenti alla finestra oppure con chi saresti uscita. Desideravo vederti da sola, che, una volta sull’uscio, ti guardassi intorno e vedendomi rimanessi piacevolmente compiaciuta.
Avrei voluto essere io nei tuoi sogni, a ispirare i tuoi sonni e farti felice. Ma lo so di non potere. Eppure questa consapevolezza non m’ha fatto smettere di volerti portare via con me.
Non capisco. Non capisco cosa vuoi dire. Mi pare assurdo che tu pensi di poter amarmi. Quanto abbiamo passato insieme? Non capisco perché tu voglia portarmi con te. Non sai nulla.
Ti ho rubato anche un sorriso triste quella sera. È andata così: io ti ho guardata per un momento, mentre ti passavi le mani nei capelli, e stavi sorridendo, ma non alla persona con cui parlavi. Sorridevi, rivolta verso il basso come per un pensiero veloce da far svanire. E, rivolto di nuovo il tuo volto verso l’alto, ti ho sorpresa triste, come se quel pensiero felice andasse celato.
Sorridi solo quando qualcuno o qualcosa ti fa ridere, ma non dovresti. A me piace, ma non dovresti. La felicità pare si auguri a tinte pastello e così mi tocca fare, con te, adesso: cercare di farti togliere dal viso i tuoi sorrisi tristi, come ho sempre fatto, d’altronde.
Potremmo essere in giro a passeggiare in una città qualunque, col caldo, mano nella mano e io dovrei accorgermi del tuo sorriso triste e allora darti un bacio o prenderti il viso e farti fare una smorfia che mimi la gioia. Sorrideresti e il mio desiderio di felicità per te sarebbe compiuto. La verità è che i tuoi sorrisi tristi a me piacciono, perché a te stanno bene, perché li sai trattare, li sai adoperare e mettere in fila senza che rompano le righe. Se lo facessi io sarei penoso.
Questo è il punto: faccio pensieri e desidero cose nuove. Non importa cosa so. Per la prima volta, non importa.
Non so da dove vengono o come si chiamino e non potrei spiegarle a nessuno eccetto te, con un po’ di tempo, con un po’ di pause, con quei silenzi che non saprei riempire, all’inizio. Ma potrei imparare.
Sono un pessimo romantico, lo ammetto. È per questo che non sono riuscito a farti innamorare. Lo so che è così. Ho immaginato che potessi bastare io, con i miei modi normali e l’aria spavalda. Fintamente sicura. E del tempo, per spiegarti quello che manca, per farti vedere che ne sarebbe valsa la pena, alla fine.
Ho provato, che dire, a farmi scegliere. Ho sperato. Dovevo. Era una possibilità, capisci? Come fare a metterla via, a dimenticarla. Forse aspettando, forse non era il momento. Forse io e te abbiamo un altro tempo. Sono sicuro che con qualche giorno in più, ora in più, ti avrei portato via con me. È l’idea che almeno una volta succeda, no? Hai presente? Quell’idea invasiva e sotterranea che si inabissa o si palesa e lo fa una volta sola per tutte e se l’avverti non puoi far finta di niente se hai un po’ di senno.
Come un sibilo fluttuante e sinuoso.
A me è successo questo: non sono riuscito a fare finta di niente, non volevo, in fondo. Non potevo far altro che cercare di portarti con me, dal profondo, per egoismo quasi, per farmi stare bene. Anche se sapevo di non potere. Anche se era rischioso. Anche se tu non vuoi, anche se, infine, la tua felicità non dipende da me.
E non posso fare a meno di chiedertelo di nuovo. Solo per essere sicuro.
Verresti?"

(Calvino)

mercoledì 1 giugno 2016

La mia notte

La mia notte… che non vorrei più… La mia notte è come un grande cuore che pulsa. Sono le tre e trenta del mattino. La mia notte è senza luna. La mia notte ha grandi occhi che guardano fissi una luce grigia che filtra dalle finestre. La mia notte piange e il cuscino diventa umido e freddo. La mia notte è lunga e sembra tesa verso una fine incerta. La mia notte mi precipita nella tua assenza. Ti cerco, cerco il tuo corpo immenso vicino al mio, il tuo respiro, il tuo odore. La mia notte mi risponde: vuoto; la mia notte mi dà freddo e solitudine. Cerco un punto di contatto: la tua pelle. Dove sei? Dove sei? Mi giro da tutte le parti, il cuscino umido, la mia guancia vi si appiccica, i capelli bagnati contro le tempie. Non è possibile che tu non sia qui. La mia mente vaga, i miei pensieri vanno, vengono e si affollano, il mio corpo non può comprendere. Il mio corpo ti vorrebbe. Il mio corpo, quest'area mutilata, vorrebbe per un attimo dimenticarsi nel tuo calore, il mio corpo reclama qualche ora di serenità. La mia notte è un cuore ridotto a uno straccio. La mia notte sa che mi piacerebbe guardarti, seguire con le mani ogni curva del tuo corpo, riconoscere il tuo viso e accarezzarlo. La mia notte mi soffoca per la tua mancanza. La mia notte palpita d'amore, quello che cerco di arginare ma che palpita nella penombra, in ogni mia fibra. La mia notte vorrebbe chiamarti ma non ha voce. Eppure vorrebbe chiamarti e trovarti e stringersi a te per un attimo e dimenticare questo tempo che massacra. Il mio corpo non può comprendere. Ha bisogno di te quanto me, può darsi che in fondo, io e il mio corpo, formiamo un tutt'uno. Il mio corpo ha bisogno di te, spesso mi hai quasi guarita. La mia notte si scava fino a non sentire più la carne e il sentimento diventa più forte, più acuto, privo della sostanza materiale. La mia notte mi brucia d'amore.
Sono le quattro e trenta del mattino.
La mia notte mi strema. Sa bene che mi manchi e tutta la sua oscurità non basta a nascondere quest'evidenza che brilla come una lama nel buio, la mia notte vorrebbe avere ali per volare fino a te, avvolgerti nel sonno e ricondurti a me. Nel sonno mi sentiresti vicina e senza risvegliarti le tue braccia mi stringerebbero. La mia notte non porta consiglio. La mia notte pensa a te, come un sogno a occhi aperti. La mia notte si intristisce e si perde. La mia notte accentua la mia solitudine, tutte le solitudini. Il suo silenzio ascolta solo le mie voci interiori. La mia notte è lunga, lunga, lunga. La mia notte avrebbe paura che il giorno non appaia più ma allo stesso tempo la mia notte teme la sua apparizione, perché il giorno è un giorno artificiale in cui ogni ora vale il doppio e senza di te non è più veramente vissuta. La mia notte si chiede se il mio giorno somiglia alla mia notte. Cosa che spiegherebbe la mia notte, perché tempo anche il giorno. La mia notte ha voglia di vestirmi e di spingermi fuori per andare a cercare il mio uomo. Ma la mia notte sa che ciò che chiamano follia, da ogni ordine, semina disordine, è proibito. La mia notte si chiede cosa non sia proibito. Non è proibito fare corpo con lei, questo, lo sa, ma si irrita nel vedere una carne fare corpo con lei sul filo della disperazione. Una carne non è fatta per sposare il nulla. La mia notte ti ama fin nel suo intimo, e risuona anche del mio. La mia notte si nutre di echi immaginari. Essa, può farlo. Io, fallisco. La mia notte mi osserva. Il suo sguardo è liscio e si insinua in ogni cosa. La mia notte vorrebbe che tu fossi qui per insinuarsi anche dentro di te con tenerezza. La mia notte ti aspetta. Il mio corpo ti attende. La mia notte vorrebbe che tu riposassi nell'incavo della mia spalla e che io riposassi nell'incavo della tua. La mia notte vorrebbe essere spettatrice del mio e del tuo godimento, vederti e vedermi fremere di piacere. La mia notte vorrebbe vedere i nostri sguardi e avere i nostri sguardi pieni di desiderio. La mia notte vorrebbe tenere fra le mani ogni spasmo. La mia notte diventerebbe dolce. La mia notte si lamenta in silenzio della sua solitudine al ricordo di te. La mia notte è lunga, lunga, lunga. Perde la testa ma non può allontanare la tua immagine da me, non può dissipare il mio desiderio. Sta morendo perché non sei qui e mi uccide. La mia notte ti cerca continuamente. Il mio corpo non riesce a concepire che qualche strada o una qualsiasi geografia ci separi. Il mio corpo diventa pazzo di dolore di non poter riconoscere nel cuore della notte la tua figura o la tua ombra. Il mio corpo vorrebbe abbracciarti nel sonno. Il mio corpo vorrebbe dormire in piena notte e in quelle tenebre essere risvegliato al tuo abbraccio. La mia notte urla e si strappa i veli, la mia notte si scontra con il proprio silenzio, ma il tuo corpo resta introvabile. Mi manchi tanto, tanto. Le tue parole. Il tuo colore.
Fra poco si leverà il sole.
Città del Messico,
12 settembre 1939

(Frida Kahlo)