mercoledì 21 ottobre 2015

La ragazza interrotta


La ragazza interrotta , Susanna Kaysen (1993)

“Quando sei triste hai bisogno di sentire il tuo dolore fatto musica”.

In questo diario la scrittrice racconta l’esperienza del suo ricovero in una clinica psichiatrica (che aveva annoverato tra i suoi pazienti illustri Sylvia Plath, Robert Lowell, Ray Charles) nel 1967 quando aveva soltanto  18 anni ed era una ragazza inquieta, tormentata e infelice, ci descrive i propri pensieri più intimi e le ragazze conosciute nel reparto. La diagnosi ufficiale: disturbo della personalità borderline, ma labile è il confine tra normalità e follia ed è proprio questa linea sottile che separa dal baratro a  terrorizzare i presunti "normali" o sani di mente.
Lo stile è distaccato, a tratti  ironico, sintetico, estremamente realistico  nel descrivere episodi  crudi e drammatici. Da questo libro è stato tratto il celebre film “ragazze interrotte” che valse ad Angelina Jolie un Oscar come migliore attrice non protagonista nel duemila. Il libro è però nettamente diverso dal film, soprattutto nel finale.
Il titolo del romanzo rimanda a un dipinto che aveva colpito particolarmente Susanna al punto da farla piangere , “il concerto interrotto” di Vermeer, dove una ragazza guarda intensamente fuori dal quadro, lontano, in cerca di uno sguardo che incontri il suo. 
Le  sembra quasi che  voglia metterla in guardia, “premurosa o triste, interrotta mentre suona, strappata e  fissata sulla tela  nella imperfetta e minacciosa luce della vita”. 
Il film mi aveva colpito maggiormente, tuttavia ho apprezzato anche il libro, diretto, intenso, scarno ed essenziale.


 "La gente ti chiede: come ci sei finita? In realtà, quello che vogliono sapere è se c'è qualche probabilità che capiti anche a loro. Non posso rispondere alla domanda sottintesa. Posso solo dire che è facile. Ed è facile scivolare in un universo parallelo. Ce ne sono tanti: mondi di pazzi, criminali, storpi, moribondi, forse anche di morti. Sono mondi paralleli a questo e gli somigliano, ma non ne fanno parte. Nell'universo parallelo le leggi della fisica sono sospese. Non necessariamente ciò che sale scende, un corpo in stato di quiete non tende a rimanerci, e non è detto che ogni azione provochi una reazione uguale e contraria. Anche il tempo va diversamente. Può avere andamento concentrico, scorrere all'incontrario, saltellare dal presente al passato. La disposizione stessa delle molecole è fluida: i tavoli possono diventare orologi; le facce, fiori. Ma queste sono cose che si scoprono in seguito. Un altro aspetto singolare dell'universo parallelo è che, pur essendo invisibile da questa parte, quando ci sei dentro ti è facile vedere il mondo da cui provieni. A volte sembra immane e minaccioso, tremolante come un enorme ammasso di gelatina; altre volte è lillipuziano e attraente, rotante e luminoso nella sua orbita. Comunque sia, non lo puoi ignorare.
Ad Alcatraz ogni finestra ha la vista su San Francisco."

“Controllo”. Non finiva mai, nemmeno di notte, era la nostra ninnananna.
Era il nostro metronomo, il nostro polso. Era la nostra vita misurata in dosi appena un po' più grandi di quei famosi cucchiaini da caffè. Cucchiai da minestra, magari. Cucchiai di latta ammaccati, traboccanti di ciò che avrebbe dovuto essere dolce ma era acido, andato a male, passato senza poterlo assaporare: la nostra vita.

"Stavolta lessi il titolo del quadro: ragazza interrotta mentre suona.
Interrotta mentre suona: com’era stata la mia vita, interrotta nella musica dei miei diciassette anni, com’era stata la sua vita, strappata e fissata su tela: un momento reso immobile, per tutti gli altri momenti, qualsiasi cosa fossero o avrebbero potuto essere. Quale vita può guarirne?
Adesso avevo qualcosa da dirle.”Ti vedo”, dissi.
 Il mio fidanzato mi trovò che piangevo nel corridoio.
“Cos’è successo?” domandò.
“Ma non vedi, lei sta cercando di venirne fuori” dissi, indicandola.
Guardò il quadro, guardò me e disse:” non fai che pensare a te stessa. Non capisci niente di arte”.
Si allontanò per guardare un Rembrandt.
Da allora sono tornata al Frick , per guardare lei e gli altri due Vermeer. Gli altri due quadri sono autosufficienti. I personaggi si guardano l’un l’altro: la signora e la domestica, il soldato e la sua innamorata. Vederli è come sbirciare attraverso un buco in una parete. E la parete è fatta di luce: quella luce di Vermeer del tutto credibile eppure irreale. Una luce così non esiste, ma vorremmo che ci fosse. Vorremmo un sole che ci rendesse giovani e belli, vorremmo vestiti che scintillano e s’increspano sulla pelle, vorremmo soprattutto che un nostro sguardo bastasse a ravvivare tutti quelli che conosciamo, come succede alla domestica con la lettera e al soldato col cappello.
La ragazza che suona posa in un altro genere di luce, l’intermittente, minacciosa luce della vita, che ci fa vedere noi stessi e gli altri solo in modo imperfetto, e assai di rado."
 



lunedì 19 ottobre 2015

Il vagabondo delle stelle


Il vagabondo delle stelle, Jack London (1915)

“La materia non ricorda, lo spirito sì. E il mio spirito altro non è che la memoria delle mie infinite incarnazioni.”

Un classico intramontabile che narra la  storia di Darrell Standing, professore universitario detenuto nel carcere di San Quentin per l'omicidio di un collega. Un ritratto lucido e realistico della violenza disumana perpetrata all'interno della prigione che annienta l’individuo e dell'orrore della pena di morte, alla quale viene alla fine  condannato per un futile motivo, la presunta e insignificante  aggressione a una guardia carceraria.
E poi la tortura della camicia di forza che piega il corpo, corruttibile e mortale, ma non lo spirito, che vagabonda libero  tra le stelle, in epoche lontanissime, tra esperienze estreme e avventure selvagge.
Darrell rivive così le sue vite precedenti, che lo hanno portato a essere quello che è ora, la collera rossa che lo acceca, il dolore, l'amore per una donna che da sempre è all'origine di tutto.
Anche nella cella più angusta e opprimente si può essere liberi, libertà della mente, libertà dello spirito, eterno e immortale.
Si susseguono tra le pagine realismo onirico, reincarnazioni, citazioni letterarie e filosofiche e la voglia di rivivere ancora chissà dove o quando, perché la morte non è la fine di tutto, ma l'inizio di una nuova avventura nel tempo, altre forme, altre storie o memorie.

E ora sono qui, nel braccio degli assassini del carcere di Folsom, che attendo, le mani rosse di sangue, il giorno fissato dalla macchina dello Stato, quando i suoi servitori mi porteranno in quella che chiamano tenebra, quella tenebra di cui hanno paura e da cui attingono immagini di superstizione e terrore, la stessa tenebra che li spinge, fra tremiti e lamenti, davanti agli altari delle divinità antropomorfe, generate dal medesimo orrore.”

“È la vita a costituire l'unica realtà e il vero mistero. La vita è molto di più che semplice materia chimica, che nelle sue fluttuazioni assume quelle forme elevate che ci sono note. La vita persiste, passando come un filo di fuoco attraverso tutte le forme prese dalla materia. Lo so. Io sono la vita. Sono passato per diecimila generazioni, ho vissuto per milioni di anni, ho posseduto numerosi corpi. Io, che ho posseduto tali corpi, esisto ancora, sono la vita, sono la favilla mai spenta che tuttora divampa, colmando di meraviglia la faccia del tempo, sempre padrone della mia volontà, sempre sfogando le mie passioni su quei rozzi grumi di materia che chiamiamo corpi e che io ho fuggevolmente abitato.”

"Non uccidere». Stupidaggini. Domani mattina mi uccideranno. «Non uccidere». Stupidaggini. Proprio ora nei cantieri navali di tutte le nazioni civili stanno costruendo le chiglie di corazzate e supercorazzate. Cari amici, io che sto per morire vi saluto con questa parola: stupidaggini.

“L'uso peggiore che si possa fare di un uomo è quello di impiccarlo”. No, non ho alcun rispetto per la pena di morte. Si tratta di un'azione sporca, che non degrada solo i cani da forca pagati per compierla ma anche la comunità sociale che la tollera, la sostiene col voto e paga tasse specifiche per farla mettere in atto. La pena di morte è un atto stupido, idiota, orribilmente privo di scientificità.”



giovedì 1 ottobre 2015

E le stelle stanno a guardare

E le stelle stanno a guardare, Cronin (1935)

Questo romanzo racconta la storia di tre famiglie, diverse eppure legate a doppio filo tra loro.
La famiglia Fenwick, i cui componenti lavorano nella miniera di Sleescale, che a dispetto del nome è un vero e proprio inferno, patiscono la fame e condizioni di lavoro molto dure. Tra essi spicca la figura di Davide, che studierà e arriverà a ottenere un seggio in parlamento dove si batterà per la nazionalizzazione delle miniere, aumenti salariali e condizioni di lavoro umane e dignitose per i lavoratori. La famiglia Barras, i proprietari della miniera, il fragile Arturo e l’autoritario padre, attaccato al denaro e al profitto personale e incurante delle rivendicazioni operaie e delle norme di sicurezza sul lavoro, che alla fine si ritroverà tra le mani un pugno di fango. E infine Joe Gowlan che ascende in modo rapido e disonesto i gradini della scala sociale, lusso, agio e spregiudicatezza.
Ma gli sforzi di Davide, schierato dalla parte dei lavoratori e di Arturo, che cercherà di rendere sicura la miniera, si riveleranno vani. A trionfare saranno soltanto l’opportunismo e il cinismo di Gowlan e della classe politica, che una volta eletta disattenderà il proprio mandato, indifferente ai  bisogni della classe operaia.
Il romanzo affronta tematiche sociali molteplici: lo sfruttamento economico, le precarie condizioni di lavoro dei minatori, lo sciopero come strumento di lotta, la rabbia cieca di chi è disperato, l’orrore della prima guerra mondiale, l’obiezione di coscienza punita con il carcere, l’emancipazione femminile e ci offre un quadro della classe politica più che mai attuale. Indimenticabili i personaggi: Davide onesto e coraggioso, Arturo insicuro e sconfitto dal sistema, Jenny seducente e frivola, Annie umile e coraggiosa, Grace mite e innamorata, Hilda che riuscirà a emanciparsi dall’opprimente figura paterna studiando medicina. Il romanzo si chiude nello stesso modo in cui si era aperto, un ragazzo adolescente scende in miniera, nelle viscere della terra mentre le stelle, immobili e lontane stanno a guardare questa umanità che si affanna e sospira, che si sforza di lottare e cambiare le cose ma viene sempre sconfitta. Nel finale del libro mi sono tornate in mente queste celebri parole, altra storia, altra latitudine, ma stessa amara verità : “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.”


"Silenzio. Il colpo secco della sbarra di chiusura. I rintocchi lontani d'una campanella. Tutti lì in piedi, i proletari, ammassati nella gabbia, in silenzio, nell'incerta luce dell'alba. Lassù, sulle loro teste, torreggiavano le impalcature della Nettuno dominanti l'abitato, il porto, il mare. Laggiù, sotto i loro piedi, l'abisso della loro esistenza. La gabbia scese. Scese di botto, rapida, nelle oscurità abissali. E il suono della discesa emerse fuori dal pozzo come un gran sospiro che salì fino alle stelle.