sabato 25 aprile 2015

.

Amo la periferia più della città. Amo tutte le cose che stanno ai margini

(C.Cassola)

25 aprile

Qui
vivono per sempre
gli occhi che furono chiusi alla luce
perché tutti
li avessero aperti
per sempre
alla luce.


 (G. Ungaretti )


giovedì 23 aprile 2015

Sylvia

Dovevi andartene e te ne andasti. E io
ti tenni dietro come un cane, lungo il prato che orlava la
scogliera,
sopra un querceto aggrovigliato dal vento –
E trovai una trappola.
Un luccichio di fil di rame, corda scura, congegno umano,
sistemata di fresco. Senza una parola
tu la strappasti via e la gettasti tra gli alberi.
Ne fui sbigottito. Fedele

alle mie divinità campestri – vedevo
dissacrata la santità di una fila di trappole.
Tu vedevi dita tozze, col sangue nelle cuticole,
strette a morsa intorno a un boccale azzurro. Io vedevo
povertà campagnola in cerca di qualche penny,
che riempiva la casseruola della domenica.
Tu vedevi innocenti
dagli occhi di bimbo strangolati. Io vedevo sacre
usanze antiche. Tu vedevi una trappola dietro l’altra,
e continuasti a strapparle dalle radici
e a scagliarle giù nel bosco. Io ti vedevo
svellere fragili e preziosi arboscelli
del mio retaggio, concessioni strappate
alla forca e alla deportazione
per vivere di ciò che dà la terra. Tu gridavi: «Assassini!».
E piangevi di una furia
cui nulla importava dei conigli. Eri rinchiusa,
boccheggiante, in una camera
dove io non potevo trovarti, o anche solo sentirti,
e tanto meno capirti.
In quelle trappole
avevi afferrato qualcosa.
Avevi afferrato qualcosa che era in me,
notturno e a me ignoto? O era
il tuo io già segnato, il tuo io torturato, piangente,
che soffocava? Sia come sia,
quelle tremende, ipersensibili dita
dei tuoi versi gli si chiusero intorno e
lo sentirono vivo. Le poesie, come viscere fumanti,
ti vennero lievi nelle mani.
...

Era un luogo di forza—
Il vento mi imbavagliava con i miei capelli sbattuti,
mi strappava la voce, e il mare
mi accecava con le sue luci, le vite dei morti
che vi si srotolavano dentro, allargandosi come
olio.
Sentii in bocca la malignità della ginestra,
i suoi aculei neri,
l’estrema unzione dei suoi gialli fiori-candela.
Avevano un’efficienza, una grande bellezza,
ed erano esagerati, come una tortura.
C’era un solo posto dove andare.
In fermento, profumati,
i sentieri si stringevano addentrandosi nella conca.
E le trappole cercavano quasi di scomparire—
zeri, che si chiudevano sul nulla,
ravvicinati, come le doglie.
L’assenza di grida
apriva un buco nel giorno ardente, un vuoto.
La luce vitrea era un muro trasparente,
la boscaglia silenziosa.
Sentii un lavorio immobile, un intento.
Sentii mani intorno a un boccale di tè, ottuse,
rozze,
strette ad anello sulla porcellana bianca.
Come lo aspettavano, quelle piccole morti!
Lo aspettavano come innamorate. Lo eccitavano.
E anche noi avevamo una relazione—
fili di ferro tesi tra noi,
paletti troppo profondi per essere divelti, e una
mente come un anello,
che scorre e si chiude su una cosa viva,
una stretta che uccide anche me.

(Il cacciatore di conigli , Sylvia Plath Ted Hughes)



Non ti arrendere



Non ti arrendere, c’è ancora tempo
per arrivare e ricominciare
accettare le tue ombre
seppellire le tue paure
liberarti del fardello...
riprendere il volo.
Non ti arrendere perché questo è la vita
continuare il viaggio
perseguire i sogni
sciogliere il tempo
togliere le macerie
e scoperchiare il cielo.
Non ti arrendere, per favore non cedere
malgrado il freddo bruci
malgrado la paura morda
malgrado il sole si nasconda
e taccia il vento
c’è ancora fuoco nella tua anima
c’è ancora vita nei tuoi sogni
Perché la vita è tua e tuo anche il desiderio
perché l’hai amato e perché ti amo
perché esiste il vino e l’amore, è certo
perché non vi sono ferite che non curi il tempo
Aprire le porte
togliere i catenacci
abbandonare le muraglie che ti protessero
vivere la vita e accettare la sfida
recuperare il sorriso
provare un canto
abbassare la guardia e stendere le mani
aprire le ali
e tentare di nuovo
celebrare la vita e riprendere i cieli
Non ti arrendere, per favore non cedere
malgrado il freddo bruci
malgrado la paura morda
malgrado il sole si nasconda e taccia il vento
c’è ancora fuoco nella tua anima
c’è ancora vita nei tuoi sogni
perché ogni giorno è un nuovo inizio
perché questa è l’ora e il momento migliore
perché non sei sola, perché ti amo.

(Mario Benedetti)

Molly



(…) Eravamo stesi tra i rododendri sul promontorio di Howth con quel suo vestito di tweed grigio e la paglietta il giorno che gli feci fare la dichiarazione si prima gli passai in bocca quel pezzetto di biscotto all'anice ed era un anno bisestile come ora si 16 anni fa Dio mio dopo quel bacio così lungo non avevo più fiato si disse che ero un fior di montagna si siamo tutti fiori allora un corpo di donna si è stata una delle poche cose giuste che ha detto in vita sua e il sole splende per te oggi si perciò mi piacque si perché vidi che capiva o almeno sentiva cos'è una donna e io sapevo che me lo sarei rigirato come volevo e gli detti quanto più piacere potevo per portarlo a quel punto finchè non mi chiese di dir di si e io dapprincipio non volevo rispondere guardavo solo in giro il cielo e il mare e pensavo a tante cose che lui non sapeva di Mulvey e mr Stanthope e Hester e papà e il vecchio capitano Groves e i marinai che giocavano al piattello e alla cavallina come dicevan loro sul molo e la sentinella davanti alla casa del governatore con quella cosa attorno all'elmetto bianco povero diavolo mezzo arrostito e le ragazze spagnole che ridevano nei loro scialli e quei pettini alti e le aste la mattina i Greci e gli Ebrei e gli Arabi e il diavolo chi sa altro da tutte le parti d'europa e Duke street e il mercato del pollame un gran pigolio davanti a Larby Sharon e i poveri ciuchini che inciampavano mezzi addormentati e gli uomini avvolti nei loro mantelli addormentati all'ombra sugli scalini e le grandi ruote dei carri dei tori e il vecchio castello e vecchio di mill'anni si e quei bei mori tutti in bianco e turbanti come re che chiedevano di metterti a sedere in quei buchi di botteghe e Ronda con le vecchie finestre delle posadas fulgidi occhi celava l'inferriata perché il suo amante baciasse le sbarre e le gargotte mezzo aperte la notte che perdemmo il battello ad Algesiras il sereno che faceva il suo giro con la lampada e Oh quel pauroso torrente laggiù in fondo  Oh e il mare  il mare qualche volta cremisi come il fuoco  e gli splendidi tramonti  e i fichi nei giardini dell'Alameda sì e tutte quelle stradine curiose  e le case rosa e azzurre e gialle  e i roseti e i gelsomini e i geranii e i cactus  e Gibilterra da ragazza dov'ero un Fior di montagna  sì quando mi misi la rosa nei capelli come facevano le ragazze andaluse  o ne porterò una rossa  sì e come mi baciò sotto il muro moresco e io pensavo be' lui ne vale un altro  e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora  sì allora mi chiese se io volevo  sì dire di sì mio fior di montagna  e per prima cosa gli misi le braccia intorno  sì e me lo tirai addosso  in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato  sì e il suo cuore batteva come impazzito  e sì dissi sì voglio  sì.
(Molly Bloom)


Canzone d'amore



Canzone d’amore

Lui la amava e lei lo amava
e i suoi baci le suggevan via l'intero passato e futuro o così tentavano
lui non aveva altro appetito
lei lo mordeva lei lo morsicava lei suggeva
lo voleva completamente dentro di sé
sano e salvo per sempre e poi sempre
le loro piccole urla svolazzavano nelle tende
gli occhi di lei volevano che nulla si perdesse
gli sguardi di lei gli inchiodavano polsi mani gomiti
lui la avvinghiava stretta così che la vita
non la trascinasse via da quel momento
lui voleva che tutto il futuro cessasse
lui voleva buttarsi con le sue braccia intorno a lei
dall’orlo di quel momento e nel nulla
o durevole o quel che ci fosse
l’abbraccio di lei era un torchio immenso
a stamparselo nelle sue ossa
i sorrisi di lui erano soffitte d’un palazzo incantato
ove non vi giungerebbe mai il mondo reale
i sorrisi di lei erano morsi di ragno
così lui giacerebbe immoto fino a che lei non si sentisse affamata
le parole di lui erano esercizi d’occupazione
le risate di lei erano tentativi d’assassino
gli sguardi di lui erano proiettili pugnali di vendetta
le occhiate di lei erano spettri nell’angolo con orribili segreti
i sussurri di lui erano fruste e stivali
i baci di lei erano avvocati che non smettevano di scrivere
le carezze di lui erano gli ultimi ami di un naufrago
i trucchi d’amore di lei erano frantumazione di legami
e i loro gemiti profondi strisciavano sul pavimento
un animale trascinante una grossa trappola
le promesse di lui erano il bavaglio del chirurgo
le promesse di lei scoperchiavano il teschio
lei se ne farebbe fare una spilla
i giuramenti di lei gli mettevano gli occhi in formalina
sul fondo del suo cassetto segreto
le loro urla si appiccicavano alla parete
le loro teste si staccavano nel sonno come le due metà
d’un melone spaccato, ma è duro da smettere l’amore
nel loro sonno intrecciato si scambiavano braccia e gambe
nei loro sogni i loro cervelli prendevano l’un l’altro a ostaggio
il mattino portavano l’uno il viso dell’altro.

(Ted Hughes)

Elisewin



Immobile, con la lanterna spenta in mano, Elisewin sentiva il proprio nome arrivarle da lontano, mescolato al vento e al fragore del mare. Nel buio, davanti a sé, vedeva incrociarsi le piccole luci di tante lanterne, ognuna sperduta in un suo viaggio sull'orlo della burrasca. Non c'erano, nella sua mente, né inquietudine, né paura. Un lago tranquillo le era esploso, tutt'a un tratto, nell'anima. Aveva lo stesso suono di una voce che conosceva...
Silenzio.
Sul pavimento di legno, un passo dopo l'altro,granelli di sabbia che scricchiolano sotto i piedi.
 E al centro della stanza, in piedi, immobile, Adams. Che la guarda.
Un passo dopo l'altro, fino ad arrivargli vicino. E dirgli:
-non mi farai del male, vero?
Non le farà del male, vero?
-No.
No.
Allora
Elisewin
prese
tra le mani
il volto
di quell'uomo,
e
lo baciò.
Nelle terre di Carewall, non smetterebbero mai di raccontare questa storia. Se solo la conoscessero. Non smetterebbero mai. Ognuno a modo suo, ma tutti continuerebbero a raccontare di quei due e di un'intera notte passata a restituirsi la vita, l'un l'altra, con le labbra e con le mani, una ragazzina che non ha visto nulla e un uomo che ha visto troppo, uno dentro l'altra-ogni palmo della pelle é un viaggio, di scoperta, di ritorno nella bocca di Adams a sentire il sapore del mondo, sul seno di Elisewin a dimenticarlo- nel grembo di quella notte stravolta, nera burrasca, lapilli di schiuma nel buio, onde come cataste franate, rumore, sonore folate, furiose di suono e velocità, lanciate sul pelo del mare, nei nervi del mondo, oceano mare, colosso che gronda, stravolto-sospiri, sospiri nella gola di Elisewin-velluto che vola- sospiri ad ogni passo nuovo in quel mondo che valica monti mai visti e laghi di forme impensabili- sul ventre di Adams il peso bianco di quella ragazzina che dondola musiche mute- chi l'avrebbe mai detto che baciando gli occhi di uomo si possa vedere così lontano- accarezzando le gambe di una ragazzina si possa correre così veloce e fuggire-fuggire da tutto-vedere lontano- venivano dai due più lontani estremi della vita, questo è stupefacente, da pensare che mai si sarebbero sfiorati, se non attraversando da capo a piedi l'universo, e invece nemmeno si erano dovuti cercare, questo è incredibile, e tutto il difficile era stato solo riconoscersi, riconoscersi, una cosa di un attimo, il primo sguardo e già lo sapevano, questo è il meraviglioso-questo continuerebbero a raccontare , per sempre, nelle terre di Carewall, perché nessuno possa dimenticare che non si è mai lontani abbastanza per trovarsi, mai-lontani abbastanza-per trovarsi- lo erano quei due, lontani, più di chiunque altro e adesso- grida la voce di Elisewin, per i fiumi di storie che forzano la sua anima, e piange Adams, sentendole scivolare via, quelle storie, alla fine, finalmente, finite- forse il mondo è una ferita e qualcuno la sta ricucendo in quei due corpi che si mescolano- e nemmeno è amore, questo è stupefacente, ma è mani, e pelle, labbra, stupore, sesso, sapore-tristezza, forse-perfino tristezza-desiderio- quando lo racconteranno non diranno la parola amore- mille parole diranno, taceranno amore-tace tutto, intorno, quando d'improvviso Elisewin sente la schiena spezzarsi e la mente sbiancare, stringe quell'uomo dentro, gli afferra le mani e vedi, non morirà.


Tra le braccia di una donna si finisce facendo strade contorte, che neanche tanto capisci tu, e al momento buono non le puoi raccontare, non hai le parole per farlo, parole che ci stiano bene, lì, tra quei baci e sulla pelle, parole giuste, non ce n'é, hai un bel cercarle in quel che sei e in quel che hai sentito, non le trovi, hanno sempre una musica sbagliata, è la musica che gli manca, lì, tra quei baci e sulla pelle, è una questione di musica.

Come glielo dici, a un uomo così, che adesso sono io che voglio insegnargli una cosa e tra le carezze voglio fargli capire che il destino non è una catena ma un volo, e se solo ancora avesse voglia davvero di vivere lo potrebbe fare, e se solo avesse voglia davvero di me potrebbe riavere mille notti come questa invece di quell'unica, orribile, a cui va incontro, solo perché lei lo aspetta, la notte orrenda, e da anni lo chiama. Come glielo dici, a un uomo così, che ti sta perdendo?

(Baricco, oceano mare)

Che delusione Vinicio!

Leggo sempre un libro fino alla fine, anche se non mi piace o magari non è il mio genere, ma stavolta non ci sono riuscita e per la prima volta in assoluto ho interrotto la lettura, sfinita.
Mi spiace ma ho trovato questo libro pedante, pretenzioso, noioso, inutile, pieno di frasi caotiche che non significano nulla, senza un filo logico, senza significato, senza alcuna bellezza, emozione o armonia.
Stile artificioso, prolisso, ingombrante, ridondante, stralunato, incoerente, vuoto, un parlarsi addosso continuo, un fastidioso chiacchiericcio. Da un libro mi aspetto ben altro, questo è soltanto un ammasso disordinato di frasi slegate, frammentarie, farneticanti.
Un vano delirio incoerente.
Un  cantante che mi piace molto, ma come scrittore una delusione enorme.

.

E quando tutti se ne andavano
e restavamo noi due soli
tra bicchieri vuoti e posacenere sporchi,
Com’era bello sapere che eri
lì come l’acqua di uno stagno,
sola con me sull’orlo della notte,
e che duravi, eri più del tempo,

Eri quella che non se ne andava
perché uno stesso cuscino
e uno stesso tepore
ci avrebbero chiamato ancora
a risvegliare il nuovo giorno,
insieme, ridendo, spettinati.

(Julio Cortàzar)

mercoledì 22 aprile 2015

Notte stellata


"Stavo tentando l'impossibile per condurre una vita tradizionale… ma non si possono costruire piccole palizzate bianche per tenere lontani gli incubi.” 

Notte stellata
La città non esiste
se non dove un albero dai capelli
neri scivola via, come una donna
annegata nel cielo caldo. Tace,
la città. Bolle la notte, con dieci
e una stella. Oh notte stellata,
stellata notte! È così che voglio
morire.

Si muove. Sono tutti quanti vivi.
Quando la luna rompe le catene
arancioni che la legano e spruzza
bambini dai suoi occhi, come un dio,
il vecchio serpente, senza esser visto
divora le stelle. Oh stellata notte,
notte stellata! È così che voglio
morire:

in questa strisciante bestia notturna,
risucchiata tutta dentro nel grande
drago, separata
dalla mia vita senza una bandiera,
senza pancia
né grido.
 
( Anne Sexton)

La casa in collina



La casa in collina, Cesare Pavese (1949)

Il protagonista Corrado è un uomo colto, un insegnante solitario e apatico, riflessivo, dubbioso, cerebrale, indifferente alla realtà storica che lo circonda.
La collina è per lui  un rifugio e un riparo, un grembo materno sicuro e protettivo, dove però ben presto irromperà la storia portandolo ad una riflessione lucida e amara sulla guerra, sull’orrore della morte, uguale per tutti, come identico è il sangue versato senza colore o bandiere, una guerra atroce con cui dovrà fare necessariamente i conti, aprendo gli occhi, fino alla  disincantata scoperta che “ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione.” Una sorta “di viaggio attraverso l'inferno, viaggio che costituisce il momento di prova e, insieme, la sola possibilità di purificazione per il protagonista”. Un romanzo fortemente autobiografico, dove la natura acquista una valenza simbolica, riecheggiando l’infanzia e i luoghi della memoria contrapposti all’orrore del presente, una prosa asciutta, essenziale, viva.

“Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.

Ci sono dei giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi... Io non credo, che possa finire. Ora che ho visto cos'è la guerra, cos'è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: – E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.”


La luna e i falò



La luna e i falò, Cesare Pavese (1950)

“La luna è il libro che mi portavo dentro da più tempo e che ho più goduto a scrivere.
Tanto che credo che per un pezzo, forse sempre, non farò più altro.
Non conviene tentare troppo gli dei”.

Questo è l’ultimo romanzo di Pavese, il più intenso e simbolico, dove il passato si intreccia con il presente, i ricordi dell’infanzia con la cruda realtà e la disillusione, l’amara certezza di non appartenere a nessun luogo. La luna che scandisce il ritmo delle stagioni e della campagna immutabile, i falò dell’infanzia, delle notti contadine, magici, rituali, mitici e i falò dell’età adulta, della violenza atroce, il fuoco che distrugge, annienta, purifica, rigenera. La ricerca delle proprie fragili radici, la malinconia, la nostalgia, l’amicizia, la disillusione, la resistenza, il mondo contadino e i suoi riti, affiorano in questo romanzo dallo stile asciutto, scarno, essenziale e un linguaggio semplice e colloquiale, vicino al dialetto e alla lingua parlata dagli umili.

“L’orfano, il bastardo, che sa la miseria contadina e l’allegria delle povere feste paesane; e che ha fuggito, da grande, le sue valli per il mondo vasto, l’America, e ritorna e ritrova il suo paese, eguale nella immobilità delle stagioni ma mutato per una generazione sparita, per le morti e le stragi; e di queste gli si fa storico un amico rimasto, un altro se stesso che non è partito, che in sé porta volontà di intendere e cambiare il mondo e senso di un fato, di una realtà irrazionale(l’influenza della luna, i roghi benefici…)”
(Franco Fortini)

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.

Sembrava che tutta la pianura fosse un campo di battaglia, o un cortile. C'era una luce rossastra, scesi fuori intirizzito e scassato; tra le nuvole basse era spuntata una fetta di luna che pareva una ferita di coltello e insanguinava la pianura. Rimasi a guardarla un pezzo. Mi fece davvero spavento.

E quando aveva detto una cosa finiva: 'Se sbaglio, correggimi'. Fu così che cominciai a capire che non si parla solamente per parlare, per dire 'ho fatto questo' 'ho fatto quello' 'ho mangiato e bevuto', ma si parla per farsi un'idea, per capire come va questo mondo.

Magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò d'erbe secche e che la gente ricominci.”


Baricco



“Me l'ha insegnata Tool questa cosa. Andare a Quinnipak, dormire a Quinnipak, fuggire a Quinnipak. Ogni tanto gli chiedevo "Dove sei stato, che tutti ti cercavano?". E lui diceva "Ho fatto un salto a Quinnipak". É una specie di gioco. Serve quando hai lo schifo addosso, che proprio non c'è verso di togliertelo.
Allora ti rannicchi da qualche parte, chiudi gli occhi, e inizi ad inventarti delle storie. Quel che ti viene. Ma lo devi fare bene. Con tutti i particolari. E quello che la gente dice, e i colori, e i suoni. Tutto. E lo schifo a poco a poco se ne va. Poi torna, è ovvio, ma intanto per un po' l'hai fregato.”

In alcune giornate storte e grigie  mollo tutto e faccio un salto a Quinnipak, un immaginario paese ottocentesco dove si ha negli occhi l’infinito e se questo vi sembra una cosa di poco conto fate un po’ voi. Scambio due chiacchiere con il signor Rail, tra un misterioso viaggio e l’altro, con sua moglie Jun che quando ride puoi soltanto baciarla o impazzire, con Mormy mistero e meraviglia, con Pekisch che suona l’umanofono e ha tutta la musica nella testa. E poi viaggio su Elisabeth velocità e modernità che irrompe sulla scena portando cambiamento e dolore.
Che sia Quinnipak, la locanda Almayer o il transatlantico Virginian dove Novecento  vive la propria musica tra note e onde, Baricco riesce a creare sapientemente una suggestiva realtà parallela, una bolla, che è scrittura poesia vita musica, suoni, colori, emozioni indefinite, impermeabile alla ferocia del  reale.
Un luogo etereo, un rifugio dove il lettore può ossigenarsi e sopravvivere. Non a caso sarà un libro a portare via per sempre Jun Rail. Se amo così tanto Baricco, il motivo è semplicemente questo. L’approccio alle sue opere non può essere del tutto razionale, perché ciò che evoca non è del tutto “reale”, e non ha nulla a che vedere con la ferrea e concreta razionalità. Baricco non scrive “ sul nulla” come  sostengono i suoi detrattori, danza con le parole, ci gioca, le ripete, le dilata, creando un magico  equilibrio di poesia e prosa, sta al lettore trovare la strada, la sua personale chiave di lettura, senza smarrirsi nel labirinto della sua scrittura.
Un dipinto, una musica, una sinestesia onirica. Una scrittura che è una creatura viva.

Colazione da Tiffany


Colazione da Tiffany, T. Capote (1958)

Ho amato questo romanzo breve e brillante, diverso dal film che è entrato nel nostro immaginario collettivo(molte parti forse giudicate trasgressive sono state cambiate). Chi è Holly Golightly circondata da molteplici e bizzarri personaggi? “Una volgare esibizionista, una perdigiorno, un’assoluta montatura” ma autentica? Una party girl che “mette in pericolo la sicurezza e l’equilibrio nervoso dei vicini”? Chi è davvero Holly?
Un’adorabile ribelle, Tiffany come antidoto alle paturnie e all’infelicità. Un gatto senza nome, una casa senza mobili. In transito.
 Una ragazza deliziosa, volubile, sognatrice, inquieta, occhi grandi un po’ verdi un po’ azzurri, apparentemente svampita e viziata, una eterna bambina, che cerca disperatamente il suo posto nel mondo. Terrorizzata dai legami e dall’idea di appartenere a qualcuno. Complessa, in fuga da un passato di cui si intravede appena  qualcosa.
Nella moltitudine di uomini che la circondano, tolta la maschera della svampita, Holly è sola, ha un unico vero amico, suo vicino di casa e aspirante scrittore, nel quale identifica il fratello scomparso, mentre  la caotica New York con le sue illusioni fa da sfondo a questa improbabile amicizia / amore platonico.
Tante le disavventure che vive, anche dolorose descritte sempre lievemente.
Poetica , innocente e maliziosa,  dilegua nel finale come una brezza leggera e noi tutti non possiamo che sperare che abbia finalmente trovato il suo posto nel mondo e che sia felice. Affascinante, anticonformista, malinconica Holly, una farfalla variopinta che si dissolve nell’aria  appena cerchi di afferrarla, eternamente in fuga da o verso qualcosa.

“Non amate mai una creatura selvatica, signor Bell," lo ammonì Holly. "È stato questo lo sbaglio di Doc. Si portava sempre a casa qualche bestiola selvatica. Un falco con un'ala spezzata. E una volta un gatto con una zampa rotta. Ma non si può dare il proprio cuore a una creatura selvatica; più le si vuole bene più forte diventa. Finché diventa abbastanza forte da scappare nei boschi. O da volare su un albero. Poi su un albero più alto. Poi in cielo. E sarà questa la vostra fine, signor Bell, se vi concederete il lusso di amare una creatura selvatica. Finirete per guardare il cielo."