domenica 28 febbraio 2016

La stranezza che ho nella testa



La stranezza che ho nella testa , Orhan Pamuk

Avevo pensieri malinconici...
Una stranezza nella mia testa,
la sensazione di essere estraneo a quel tempo,
a quel luogo.

Questo romanzo è stato il mio primo Pamuk. Il libro racconta "la  vita, le avventure, i sogni, gli amici e i nemici di Mevlut venditore di boza,” onesto, ingenuo, sognatore, un uomo puro, ma anche  la vita di Istanbul, una città che cresce, cambia, si trasforma nel corso della lunga narrazione. Le prime duecento pagine le ho odiate profondamente, trovavo la scrittura lenta, monocorde, noiosa,  non ne potevo più del venditore di boza e delle sue vicissitudini personali. Ho deciso di proseguire pagina dopo pagina  e nell’ultima parte qualcosa è cambiato, giunta infine  all’ultimo capitolo sono rimasta piacevolmente stupita. Credevo di odiare questo libro e invece l’ho trovato a suo modo bello, dovevo arrivare alla fine per comprenderlo e rivalutarlo totalmente. Questo libro ha un suo tempo e un suo universo che si rivelano poco a poco e allora non si può non amarlo. Qui non c’è soltanto la storia di Mevlut, ma di una città intera, i suoi vicoli, i suoi abitanti, le sue tradizioni, i suoi profumi, i suoi odori, botteghe, ambulanti, macerie, povertà, misteri, una città che cambia pelle forma occhi, che passa dalle misere baracche ai palazzi di dodici piani, una città che nel tempo diventa moderna e tecnologica. Una città che inizialmente Mevlut sente vicina e poi di colpo estranea. E quella lentezza che odiavo non è lentezza, ma è  tempo che scorre, accelera e rallenta, che scandisce l’esistenza intera di un uomo, che ama girovagare di notte per le strade della città e “nei meandri della propria mente”. Per lui Istanbul è bellezza e orrore, "stupore e sgomento", una  città che  lo  attrae e lo spaventa. Quando da ragazzino inizia a percorrere le sue strade col  carretto di yogurt, riso e gelato la sente propria, “sua” e poi crescendo la scopre diversa, lontana, aliena, ma continua ad amarla perché in fondo gli appartiene da sempre. Divenuto un uomo maturo  ha ancora bisogno di vivere quelle strade, notte dopo notte, respirando la solitudine, la malinconia del tempo che scorre cancella  trasforma, la  paura di invecchiare e morire solo. Mevlut venditore ambulante di boza, poverissimo, che alla fine avrà un appartamento  e un cellulare che però non usa mai. Mevlut che per tutta la vita ha inseguito un sogno d’amore adolescenziale e poi ha capito che l’amore è un’altra cosa. Che per tre anni ha scritto lettere d’amore a una ragazza e ai suoi occhi neri, e ne ha sposato un’altra per sbaglio. E poi…Tempo, malinconia, nostalgia, solitudine, paura della morte, tematiche universali che appartengono all’uomo da sempre e  riaffiorano nelle ultime  pagine sotto il cielo di Istanbul e  quel finale bellissimo nella sua semplicità, un uomo che dialoga con la città e con il suo amore, quando finalmente le intenzioni del cuore e delle labbra coincidono.

La potenza della città, il suo inquietante realismo, la sua violenza, gli davano l’impressione di un unico, solido muro. Incastonati in questa parete diecimila, centomila occhi lo osservavano come fossero un unico occhio. Gli occhi scuri al mattino cambiavano colore con il giorno, e la sera si illuminavano, così da trasformare la notte in giorno, proprio come in quel momento. Sin da quando era bambino Mevlut amava osservare le luci della città in lontananza. C’era qualcosa di magico in quello spettacolo. Era la prima volta però che poteva osservare Istanbul da un punto così elevato. Aveva paura, ma ne era anche ammirato, bellezza e orrore si confondevano l’uno nell’altra. Provava sgomento e stupore di fronte alla città, eppure, nonostante i suoi cinquantacinque anni, avrebbe voluto immergersi, ancora una volta, in quella foresta di palazzi costellati di pupille.


Ciò che voleva dire alla città, ciò che voleva scrivere sui muri, gli era  appena venuto in mente. Proveniva da dentro di lui, ed era tutto intorno a lui, era un’intenzione sia del cuore che delle labbra:
“ho amato Rayiha più di ogni altra cosa a questo mondo” disse Mevlut tra sé e sé.


martedì 23 febbraio 2016

Poesie sparse

Lascia sia il vento a completar le parole
che la tua voce non sa articolare.
Non ci occorrono più le parole.
Siamo entrambi il medesimo silenzio.
Come due specchi, svuotati d' ogni immagine,
che l'uno all'altro rendono
un semplice raggio. E ci basta.

 (Margherita Guidacci)


Se esisti per davvero - fatti avanti,
sii nuvola, caprone, aviatore,
porta con te occhi, bocca, voce,
- chiedimi qualcosa, lascia che mi sacrifichi,
prendimi tra le braccia, proteggimi,
nutrimi con la settima parte di un pesce,
fammi un fischio, dissodami le dita,
ricolmami di aromi, di stupore,
- resuscitami.

(Nina Cassian)


Vecchio, nuovo, preso in prestito, blu
Il giorno in cui ci siamo incontrati.
Questa busta inaspettata.
La mia maglietta del San Francisco mime Troupe che
indossavi per gingillarti nell'appartamento, le cui
maniche tagliate si abbinavano
Ai tuoi occhi.

Quella notte senza sonno.
Questa notte senza sonno.
La faccia che indosserò per stringerti la mano ed augurarti il
meglio.
Il modo in cui mi sentirò quando lo faccio.
"Paper Moon". La nostra canzone.
"Jesu, Joy of Man's Desiring".
Il mio Ella Live at Montreux che spero che lui metta su una
notte per sbaglio e ti faccia piangere.
Questa squallida rassegna

(Mark Haddon)

La curva dei tuoi occhi intorno al cuore
ruota un moto di danza e di dolcezza,
aureola di tempo, arca notturna e fida
e se non so più quello che ho vissuto
è perché non sempre i tuoi occhi mi hanno visto.
Foglie di luce e spuma di rugiada
canne del vento, risa profumate,
ali che il mondo coprono di luce,
navi che il cielo recano ed il mare,
caccia dei suoni e fonti dei colori,
profumi schiusi da una cova di aurore
sempre posata su paglia degli astri,
come il giorno vive di innocenza,
così il mondo vive dei tuoi occhi puri
e va tutto il mio sangue in quegli sguardi.

(Paul Eluard)


Vederti IN UN CONTINENTE STRANIERO io vorrei
perché finalmente in mezzo agli altri ti vedrei sola
e tu fra mille altri vedresti ME
e finalmente ci verremmo incontro.

(Peter Handke)


 Amo ogni tuo ciglio, ogni tuo capello, ti combatto in candidi corridoi
dove si giocano le fonti della luce,
ti discuto in ogni nome, ti strappo con delicatezza di cicatrice,
a poco a poco ti metto nei capelli cenere di lampo e nastri
assopiti nella pioggia.
Non voglio che tu abbia una forma, che tu sia esattamente
quello che viene dietro la tua mano,
perché l’acqua, pensa all’acqua, e ai leoni quando si
sciolgono nello zucchero della fiaba,
e ai gesti, architettura del nulla,
le loro lampade accese a metà dell’incontro.
Ogni domani è l’ardesia su cui ti invento e ti disegno,
pronto a cancellarti, non sei così, neppure con quei capelli lisci,
quel sorriso.
Cerco la tua somma, il bordo del bicchiere in cui il vino si fa
luna e specchio,
cerco quella linea che fa tremare un uomo
nella sala di un museo.
E poi ti voglio bene, nel tempo e nel freddo.


(Cortàzar)

venerdì 19 febbraio 2016

Cavie

Cavie, Chuck Palahniuk (2005)

“Se riusciamo a perdonare ciò che gli altri ci hanno fatto...
Se riusciamo a perdonare ciò che noi abbiamo fatto agli altri...
Se riusciamo a prendere congedo da tutte le nostre storie. Dal nostro essere carnefici o vittime.
Solo allora, forse, potremo salvare il mondo.”

Ventitré racconti che rappresentano le storie, la vita dei singolari protagonisti di questo libro.
Una sorta di moderno Decamerone noir e splatter. Fa da cornice ai racconti, preceduti da varie poesie, una villa dove sono riuniti in una sorta di “buon ritiro” bizzarri e strampalati personaggi, aspiranti scrittori in fuga dal proprio passato, che per tre mesi abbandonano il proprio mondo, pronti a tutto pur di ottenere fama e successo.
Lo stile del libro è quello inconfondibile di Palahniuk, crudo, cinico, spietato, ironico, dissacrante, frasi brevi, taglienti, affilate che esprimono concetti essenziali, ricco di dettagli scientifici e anatomici, descrizioni disgustose, particolari rivoltanti. Vengono messe a nudo le storie di vita degli “eccentrici” personaggi, storie che “ se non riesci a digerirle ti avvelenano” ma possono anche esorcizzare la paura e l’orrore e forse salvarci, storie che “puoi usare per far ridere la gente, per farla piangere o darle la nausea oppure per spaventarla, per farla sentire come ti sei sentito tu. Per contribuire a smaltire quel momento del passato, finchè quel momento non sarà morto, consumato, digerito, assorbito.”
Storie perverse che a volte nauseano lo stesso lettore, con la loro violenza insensata, crudezza, storie che vorresti smettere di leggere, però in qualche modo leggi tutte d’un fiato fino alla fine senza sapere nemmeno il perché (masochismo? chissà). La mia preferita tra tutte quella della Baronessa assiderata. A parte alcuni “dettagli” a mio avviso eccessivi e qualche incongruenza, nel complesso questo libro mi è piaciuto, con i suoi racconti psicopatici e bui, desolati e senza speranza, cattivi, politicamente scorretti, con la loro sottile logica, e su tutto spicca la critica spietata alla società contemporanea, ai mass media, alla ricerca del successo a tutti costi, ai reality show. Cosa non si farebbe pur di ottenere il proprio dorato angolino al sole? E che poi si tratti di un riflettore dalla luce abbagliante e artificiale su un palco deserto non ha nessuna importanza.
Un libro di pura adrenalina adatto a chi ama Palahniuk e soprattutto agli stomaci forti.
Uno scrittore folle e a suo modo geniale, da assumere però a piccole dosi.

"Ci sono storie, diceva, che quando le racconti si consumano. Sono quelle in cui il phatos si appanna, e ogni versione suona più sciocca e vuota della precedente. Altre storie, invece, consumano te. Più le racconti, più acquisiscono forza. Quel tipo di storia non fa che ricordarti quanto sei stato stupido. Quanto lo sei ancora. E quanto lo sarai sempre. Raccontare certe storie è come suicidarsi (...)
Sono queste le storie che ci restano sulle labbra.
Le storie che racconteremmo solo agli estranei, in qualche angolo nascosto della cella imbottita della notte. Sono storie importanti che ripassiamo per anni nella nostra mente, ma che non raccontiamo mai. Queste storie sono fantasmi che riportano in vita i morti. Solo per un attimo. Per una visita. Ogni storia è un fantasma...
Ecco come funziona un racconto del terrore. Riecheggia una qualche antica paura. Ricrea un terrore dimenticato. Qualcosa che ci piacerebbe credere di aver dimenticato diventando adulti. Ma che ancora sa terrorizzarci fino alle lacrime. E' una ferita che speravi si fosse rimarginata.
Ogni notte è disseminata di storie così. Di questa gente che vaga, gente che non può salvarsi ma che non vuole morire. Li senti la notte gridare laggiù, a monte della faglia del White River.
Certe notti di febbraio si sente ancora l'odore di Olsen Read che non sente più le gambe, ma che viene strattonato indietro. Che grida. Le dita come artigli aggrappati nella neve, strattonato nel buio da tutti quei piccoli denti serrati."

“Anche se Dio non ci perdonerà, dice la Baronessa assiderata
noi possiamo perdonare lui.
Dovremmo perdonare Dio
per averci fatti troppo bassi. Grassi. Poveri.
Dovremmo perdonare Dio per averci dato la calvizie.
La fibrosi cistica. La leucemia.
Dovremmo perdonarlo per la Sua indifferenza. Per averci
abbandonati:
noi, il piccolo esperimento per l'ora di scienze che Dio ha fatto e dimenticato,
lasciandoci ammuffire.
I pesci rossi di Dio, trascurati al punto da dover mangiare
la nostra stessa merda depositata sul fondo (...)
e ogni sera la baronessa perdona tutti.
Perdona se stessa.
E perdona Dio per quei disastri che sembrano accadere
senza un motivo.”


lunedì 15 febbraio 2016

L'età dell'innocenza



L’età dell’innocenza, Edith Wharton (1920)

Il titolo di questo romanzo allude a un dipinto di J.Reynolds (1875) che raffigura una bambina piccola e simboleggia la vera e unica età dell’innocenza, quella dell’infanzia. Innocenza che viene meno nella complessa e labirintica società newyorkese di fine 800, con le sue ipocrite e soffocanti convenzioni sociali.
In questa agiata società borghese si muovono i personaggi del libro, con i loro silenzi, sorrisi, bugie, che fingono di non vedere tutto ciò che è spiacevole o brutto, abili pedine su una scacchiera intricata.
Contro questa società conformista la scrittrice rivendica la piena libertà dell’individuo e dei sentimenti, narrando una storia d’amore appassionata, fatta di rinuncia e nostalgia, sognata più che realmente vissuta.
Il brillante avvocato Newland Archer, che a poco a poco aprirà gli occhi sull’ottuso perbenismo dell’ambiente in cui vive, soffocato dai doveri coniugali, sua moglie May, apparentemente candida e pura come un giglio, l’affascinante Madame Olenska, che sfida apertamente con il suo comportamento, la fuga e la separazione da un marito ricco e dissoluto, le rigide regole imposte dalla società e dal decoro borghese. Tra i due nascerà un amore proibito e impossibile, che durerà una vita intera, sempre presente nella memoria, suggellato da un indimenticabile bacio. Il fiore non colto. Due gli episodi simbolo del romanzo:  sulla spiaggia,Ellen è di schiena e non si volta, percependo la presenza di lui, sfiorandosi senza riuscire a trovarsi, vicini eppure così lontani e sulla panchina, dove un uomo solo, ormai maturo, all’antica, che non vuole che la realtà distrugga il suo bel sogno romantico, si limita a contemplare da lontano una finestra illuminata.
Un libro dallo stile curato, attento, ricco di descrizioni, introspettivo, una critica impietosa alla società del tempo, che valse alla scrittrice il premio Pulitzer nel 1921 e che merita di essere letto ancora oggi.

“Fu spaventato al pensiero di ciò che doveva esserle accaduto per avere quegli occhi”.

“La solitudine vera è vivere in mezzo a tutte queste persone gentili che ti chiedono soltanto di fingere!”

“Ma allora, esattamente, quali sono i tuoi piani per noi?” chiese.
“Per noi? Ma non esiste nessun noi in quel senso, siamo vicini l’uno all’altra soltanto stando lontani. Così possiamo essere noi. Altrimenti siamo soltanto Newland Archer ed Ellen Olenska, che cercano di essere felici alle spalle di quelli che confidano in loro”.
“Ah, io sono al di là di questo”, gemette lui.
“No, non lo sei! Non lo sei mai stato. Io si, disse con voce strana e so che aspetto ha.”
 


lunedì 1 febbraio 2016

Il postino suona sempre due volte

Il postino suona sempre due volte, James M. Cain (1934)

Uno stile realistico, crudo,  asciutto, veloce, essenziale, frasi brevi, dialoghi rapidi e fulminanti, descrizioni assenti.
In poche pagine il racconto di una passione forte e travolgente che si tinge di nero, un amore irrefrenabile, fatto di baci avidi e morsi, di carne e sangue, bugiardo, omicida, che brucia come un fuoco, consuma i due protagonisti , lasciando soltanto cenere. Frank il vagabondo e Cora donna sensuale e moglie infelice, “il desiderio fatto realtà”. Ma il destino  torna a bussare di nuovo, regolando i conti, chiudendo definitivamente la partita. In questo amore torbido, impetuoso e violento ho ritrovato molto della Teresa Raquin di Zola.
Stessa folle disperazione e cupa insoddisfazione che sfociano nel delitto. Gli amanti senz'anima legati a doppio filo in un diabolico gioco di amore e morte.

“Poi vidi lei, che finora era rimasta nel retro, in cucina. Venne fuori a sparecchiare. Carrozzeria a parte, non è che fosse una bellezza mozzafiato. Ma aveva un’aria imbronciata e un certo modo di sporgere le labbra che mi fece venire voglia di masticargliele."

“La presi tra le braccia e schiacciai la mia bocca contro la sua…Mordimi! Mordimi!
La morsi. Le piantai i denti nelle labbra, da farmi schizzare il sangue in bocca. Quando la portai di sopra le gocciava sul collo.”


“Siamo solo due poveretti, Frank. Dio quella notte ci ha baciato in fronte. Ci ha dato tutto quello che due persone possono avere. E noi non eravamo tipi da averlo, ecco. Tutto quell’amore, non ce l’abbiamo fatta a reggerlo. E’ come un motore d’aeroplano, che ti porta attraverso il cielo, fino in cima alla montagna. Ma se lo metti in una Ford, la manda in pezzi. Ecco cosa siamo noi due, Frank, due Ford. Dio è lassù che se la ride di noi”.