Vanity Fair, Thackeray (1848)
In questo complesso romanzo l’autore crea una galleria
memorabile di tipi e comportamenti umani, rappresentando i loro vizi, le loro sordide
meschinità, mettendo a nudo l’ipocrisia della società del tempo. Londra è il teatro dove si svolge questa pittoresca
fiera. Un romanzo che è una “commedia umana”,
un ritratto di caratteri impietoso e dettagliato, descritti con ironia e limpido sarcasmo. Becky Sharp tagliente e
scaltra, bella, affascinante, astuta e calcolatrice, pronta a tutto pur di emergere
dalla propria infelice condizione, un piccolo genio del male. Amelia Sedley
dolce, virtuosa e quasi insopportabile nel suo ingenuo candore, fedele fino
all’inverosimile ad un ideale che esiste soltanto nella sua mente. L’unico
personaggio “positivo” in tanta miseria umana, che davvero cattura la simpatia
del lettore, è il maggiore Dobbin, fedele,
generoso e leale, che ci conquista pagina dopo pagina. Ironico, sarcastico,
irriverente, Thackeray crea dei personaggi vivi, pieni di difetti ma reali, non
semplici maschere vuote, ed in questo sta la forza dirompente ed innovativa del
romanzo, e al tempo stesso strizza l’occhio al lettore, mettendo a nudo i difetti, le manchevolezze, gli egoismi che si
annidano nell’animo umano.
Un ritratto impietoso della società vittoriana, della sua
ipocrisia, superficialità, apparenza, dove tutto ruoto intorno al denaro, alle
convenzioni sociali. Un libro arguto, ironico e brillante, un romanzo “senza
eroe” dove sono protagoniste la realtà quotidiana nei suoi pregi e difetti,
e le passioni umane nel bene e nel male.
“Non vedi come tutti i personaggi del libro siano odiosi
(con l’eccezione di Dobbin), dietro ai quali tutti sta, spero, un’oscura
morale? Avidi, pomposi, meschini, perfettamente soddisfatti di sé e a loro agio
riguardo alla loro superiore virtù”.
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