martedì 21 aprile 2015

Vanity Fair


Vanity Fair, Thackeray (1848)

In questo complesso romanzo l’autore crea una galleria memorabile di tipi e comportamenti umani, rappresentando i loro vizi, le loro sordide meschinità, mettendo a nudo l’ipocrisia della società del tempo. Londra  è il teatro dove si svolge questa pittoresca fiera. Un romanzo  che è una “commedia umana”, un ritratto di caratteri impietoso e dettagliato, descritti con ironia e  limpido sarcasmo. Becky Sharp tagliente e scaltra, bella, affascinante, astuta e calcolatrice, pronta a tutto pur di emergere dalla propria infelice condizione, un piccolo genio del male. Amelia Sedley dolce, virtuosa e quasi insopportabile nel suo ingenuo candore, fedele fino all’inverosimile ad un ideale che esiste soltanto nella sua mente. L’unico personaggio “positivo” in tanta miseria umana, che davvero cattura la simpatia del lettore, è il maggiore Dobbin, fedele, generoso e leale, che ci conquista pagina dopo pagina. Ironico, sarcastico, irriverente, Thackeray crea dei personaggi vivi, pieni di difetti ma reali, non semplici maschere vuote, ed in questo sta la forza dirompente ed innovativa del romanzo, e al tempo stesso strizza l’occhio al lettore, mettendo a nudo i  difetti, le manchevolezze, gli egoismi che si annidano nell’animo umano.
Un ritratto impietoso della società vittoriana, della sua ipocrisia, superficialità, apparenza, dove tutto ruoto intorno al denaro, alle convenzioni sociali. Un libro arguto, ironico e brillante, un romanzo “senza eroe” dove  sono protagoniste  la realtà quotidiana nei suoi pregi e difetti, e le passioni umane nel bene e nel male.

“Non vedi come tutti i personaggi del libro siano odiosi (con l’eccezione di Dobbin), dietro ai quali tutti sta, spero, un’oscura morale? Avidi, pomposi, meschini, perfettamente soddisfatti di sé e a loro agio riguardo alla loro superiore virtù”.

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