Dovevi andartene e te ne andasti. E io
ti tenni dietro come un cane, lungo il prato che orlava la
scogliera,
sopra un querceto aggrovigliato dal vento –
E trovai una trappola.
Un luccichio di fil di rame, corda scura, congegno umano,
sistemata di fresco. Senza una parola
tu la strappasti via e la gettasti tra gli alberi.
Ne fui sbigottito. Fedele
alle mie divinità campestri – vedevo
dissacrata la santità di una fila di trappole.
Tu vedevi dita tozze, col sangue nelle cuticole,
strette a morsa intorno a un boccale azzurro. Io vedevo
povertà campagnola in cerca di qualche penny,
che riempiva la casseruola della domenica.
Tu vedevi innocenti
dagli occhi di bimbo strangolati. Io vedevo sacre
usanze antiche. Tu vedevi una trappola dietro l’altra,
e continuasti a strapparle dalle radici
e a scagliarle giù nel bosco. Io ti vedevo
svellere fragili e preziosi arboscelli
del mio retaggio, concessioni strappate
alla forca e alla deportazione
per vivere di ciò che dà la terra. Tu gridavi: «Assassini!».
E piangevi di una furia
cui nulla importava dei conigli. Eri rinchiusa,
boccheggiante, in una camera
dove io non potevo trovarti, o anche solo sentirti,
e tanto meno capirti.
In quelle trappole
avevi afferrato qualcosa.
Avevi afferrato qualcosa che era in me,
notturno e a me ignoto? O era
il tuo io già segnato, il tuo io torturato, piangente,
che soffocava? Sia come sia,
quelle tremende, ipersensibili dita
dei tuoi versi gli si chiusero intorno e
lo sentirono vivo. Le poesie, come viscere fumanti,
ti vennero lievi nelle mani.
...
Era un luogo di forza—
Il vento mi imbavagliava con i miei capelli sbattuti,
mi strappava la voce, e il mare
mi accecava con le sue luci, le vite dei morti
che vi si srotolavano dentro, allargandosi come
olio.
Sentii in bocca la malignità della ginestra,
i suoi aculei neri,
l’estrema unzione dei suoi gialli fiori-candela.
Avevano un’efficienza, una grande bellezza,
ed erano esagerati, come una tortura.
C’era un solo posto dove andare.
In fermento, profumati,
i sentieri si stringevano addentrandosi nella conca.
E le trappole cercavano quasi di scomparire—
zeri, che si chiudevano sul nulla,
ravvicinati, come le doglie.
L’assenza di grida
apriva un buco nel giorno ardente, un vuoto.
La luce vitrea era un muro trasparente,
la boscaglia silenziosa.
Sentii un lavorio immobile, un intento.
Sentii mani intorno a un boccale di tè, ottuse,
rozze,
strette ad anello sulla porcellana bianca.
Come lo aspettavano, quelle piccole morti!
Lo aspettavano come innamorate. Lo eccitavano.
E anche noi avevamo una relazione—
fili di ferro tesi tra noi,
paletti troppo profondi per essere divelti, e una
mente come un anello,
che scorre e si chiude su una cosa viva,
una stretta che uccide anche me.
(Il cacciatore di conigli , Sylvia Plath Ted Hughes)
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