mercoledì 22 aprile 2015

L'inverno del nostro scontento


L’inverno del nostro scontento, J.Steinbeck

“Ormai l’inverno del nostro scontento s’è fatto estate sfolgorante ai raggi di questo sole di York.”

In questo romanzo del 1961 ambientato a Long Island con realismo e leggero umorismo viene tracciata  la parabola  di Ethan Hawley discendente di una antica famiglia, che in seguito ad un dissesto finanziario conduce una vita modesta come commesso in una drogheria.
 Ma ben presto il desiderio di riscatto, di assicurare alla propria famiglia uno status sociale ed economico dignitoso lo porterà ad accantonare ogni principio  pur di ottenere successo, denaro, ricchezza economica. A qualunque costo.
Arrivando a pagare un prezzo altissimo. Vendendo l'anima al Dio denaro, il protagonista  si troverà più solo e infelice di prima, sconfitto dal sistema, indebolito nello spirito e nei propri principi morali, ridotto a una maschera di ipocrisia e perbenismo. Disperazione, insoddisfazione ,vuoto, dietro l’apparenza del successo e del benessere tanto desiderato. Perduta l’innocenza, il sogno americano si  trasforma in un incubo, il protagonista non potrà fare a meno di guardarsi dentro, giungendo ad una amara presa di coscienza, a un passo dal suicidio.
Una prosa brillante e fluida per un libro che ritrae in modo impietoso la vita di provincia, ciò che si cela dietro la tranquilla rispettabilità  della middle class americana. Un lieto fine amaro e desolato, uno sguardo lucido e impietoso  all’interno dell’animo umano.

“Non ha nemmeno nome, in mente mia, se non questo, il Posto, non c’è rituale, né formula, niente. E’ un posto in cui riflettere sulle cose. Un uomo in realtà non sa degli altri esseri umani, il meglio che può fare è supporre che siano simili a lui. E ora, seduto nel Posto riparato dal vento, a vedere sotto le luci di guardia salire la marea, nera per il cielo buio, io mi chiedevo se tutti gli uomini hanno un Posto, se ne hanno bisogno, o se invece lo vogliono e non l’hanno. A volte ho visto uno sguardo negli occhi, uno sguardo frenetico d’animale, come per bisogno di un posto tacito, segreto, dove si mitighino i fremiti dell’anima, dove un uomo sia un uomo e se ne avveda…Se volessi farmene un’immagine, ecco, sarebbe come un lenzuolo umido che si volge e si agita a una bella brezza e si asciuga e si imbianca. Quel che succede, è tutto mio, sia buono o no….Ho detto che il Posto non implicava alcun rituale, ma questo non è del tutto vero. A volte, tornandoci, io ricostruisco il Porto Vecchio per un piacere mentale: gli scali, i depositi, le foreste d’alberi e il sottobosco di cime e tele. E i miei antenati, il mio sangue, i giovani a bordo, gli adulti a riva, gli anziani sul ponte. Non c’erano le balordaggini della pubblicità, o le troppe foglie di cavolo mozzate. C’era una dignità, una statura dell’uomo. E un uomo respirava.”

“Accade mai che uno conosca più della scorza esterna del suo prossimo?
Come sei ,dentro? Mi senti, Mary?...come sei dentro?”

Vivere vuol dire portare una cicatrice.

“Non è vero che esiste una comunità di luci, un falò del mondo. Ognuno porta la sua, la sua luce solitaria.. La mia luce era spenta.”


“ora l'inverno del nostro scontento
è reso estate gloriosa da questo sole di york,
e tutte le nuvole che incombevano minacciose
sulla nostra casa sono sepolte nel petto profondo
dell'oceano(…)
 ma io che non fui fatto per tali svaghi ,
nè fatto per corteggiare uno specchio amoroso;
io che sono di stampo rozzo e manco della maestà d'amore
con la quale pavoneggiarmi davanti a una frivola ninfa
ancheggiante ,io sono privo di ogni bella proporzione,
frodato nei lineamenti dalla natura ingannatrice,
deforme, incompiuto, spedito prima del tempo in questo mondo
che respira, finito a metà, e questa cosi' storpia e brutta
che i cani mi abbaiano quando zoppico accanto a loro,
ebbene io ,in questo fiacco e flautato tempo di pace ,
non ho altro piacere con cui passare il tempo se non
quello di spiare la mia ombra nel sole e commentare
la mia deformità.”
(Shakespeare, Riccardo III)


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