So che si può vivere
non esistendo,
emersi da una quinta, da un fondale,
da un fuori che non c’è se mai nessuno
l’ha veduto.
 So che si può esistere
 non vivendo,
 con radici strappate da ogni vento
 se anche non muove foglia e non un soffio increspa
 l’acqua su cui s’affaccia il tuo salone.
 So che non c’è magia
 di filtro o d’infusione
 che possano spiegare come di te s’azzuffino
 dita e capelli, come il tuo riso esploda
 nel suo ringraziamento
 al minuscolo dio a cui ti affidi,
 d’ora in ora diverso, e ne diffidi.
 So che mai ti sei posta
 il come – il dove – il perché,
 pigramente rassegnata al non importa,
 al non so quando o quanto, assorta in un oscuro
 germinale di larve e arborescenze.
 So che quello che afferri,
 oggetto o mano, penna o portacenere,
 brucia e non se n’accorge,
 né te n’avvedi tu animale innocente
 inconsapevole
 di essere un perno e uno sfacelo, un’ombra
 e una sostanza, un raggio che si oscura.
 So che si può vivere
 nel fuochetto di paglia dell’emulazione
 senza che dalla tua fronte dispaia il segno timbrato
 da Chi volle tu fossi…e se ne pentì.
 Ora,
 uscita sul terrazzo, annaffi i fiori, scuoti
 lo scheletro dell’albero di Natale,
 ti accompagna in sordina il mangianastri,
 torni indietro, allo specchio ti dispiaci,
 ti getti a terra, con lo straccio scrosti
 dal pavimento le orme degli intrusi.
 Erano tanti e il più impresentabile
 di tutti perché gli altri almeno parlano,
 io, a bocca chiusa.
(Montale)
 

 
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