sabato 6 ottobre 2018

Un segno invisibile e mio

Un segno invisibile e mio, Aimee Bender
"Il giorno del mio ventesimo compleanno mi sono comprata un'ascia."
Che libro WOW! Un wow sincero, urlato a squarciagola, euforico, sfrenato. A fine lettura ero turbata, incredula, stregata da questa scrittura intensa e originale. Dopo tante letture piatte, noiose, banali, mi sono imbattuta per caso in questo libro e ho detto perché no?
Mi piaceva la foto di copertina, la ragazza con il vestito con i cuoricini rosa, la coda di cavallo castana e un'ascia dietro la schiena.
Non so cosa mi aspettassi di preciso ma di sicuro non quel piacere irrefrenabile di leggere, inghiottendo vorticosamente pagine incurante del tempo tic tac, ore e ore senza riuscire a staccarmi da questo strano incantesimo e poi di notte arrivo all'ultima riga dell'ultima pagina e voglio ricominciare a leggere tutto di nuovo, ubriaca di lettere e inchiostro.
Uno stile brillante, innovativo, vivo, splendente, limpido come un cielo d'agosto, che non si confonde con nient'altro, è di Aimee e basta, una scrittura che sembra un arcobaleno variopinto, bollicine spumeggianti, saltelli sfrenati di bambini che saltano la corda, palloncini in volo, bolle di sapone colorate, gustosi lecca lecca e nuvole soffici di panna. Ma anche liquirizia nera, nodo in gola, amaro in bocca, acqua dagli occhi, quando vorresti piangere ma ti trattieni in quelle giornate brutte e storte, insomma per capirci quelle che si meritano uno o due al massimo. Eppure anche quando affiora la malinconia lo stile resta lieve, come un palloncino disperso nell'azzurro, lassù sempre più in alto.
In questo libro si muovono personaggi eccentrici, stravaganti, originali e imperfetti. Bambini vivaci e buffi con una passione per i numeri, un professore di algebra che porta appeso al collo il proprio umore sotto forma di numeri di cera, dall'uno al quarantadue, gioia assoluta. L'insegnante di scienze che soffia bolle di sapone e porta in scena tremende malattie, Lisa curiosa e attenta con la propria storia complicata, troppo grande per il suo metro e venti.
E poi Mona Gray vent'anni appena compiuti con le sue strambe manie e paure, il rassicurante tamburellare sul legno, la passione per la matematica e i numeri, amici ordinati e confortanti nel caos dell'universo, campionessa di atletica, studentessa modello, insegnante brillante, ragazza mangia sapone intelligente e sensibile che sta cercando il suo posto nel mondo, terribilmente giovane e spaventata da tutto, innamorata di un'ascia, bellezza sfavillante di legno e acciaio. Mona e la sua particolare famiglia. Una madre che sogna viaggi lontani e intanto lavora nell'agenzia turistica vicina al parco delle anatre e suo padre, dottore della pelle in quell'ospedale di vetro blu che sembra un'enorme specchio di acqua azzurra e domina l'intera città, che di colpo inizia a spegnersi, a ingrigire, vittima di una misteriosa e ignota malattia.
Una patina polverosa e grigiastra aleggia sulla casa, sui mobili, la luce affievolisce e Mona di punto in bianco inizia a smettere di fare tutto, quasi tutto e a sbiadire anche lei, ma la passione per i numeri rimane. E quando inizia a smettere mi fa venire in mente qualcuno di mia conoscenza, una ragazza introversa, brava a raccontarsi bugie, abilissima a fuggire e a nascondersi, chiudendosi in se stessa dentro un guscio impenetrabile.
Un libro terribile come una fiaba oscura, vibrante, intenso, surreale, a suo modo tenero nell'affrontare tematiche importanti, la paura della morte e delle malattie che può ibernarci paralizzando la nostra voglia di vivere, la depressione male oscuro e strisciante, le piccole ossessioni e compulsioni che ci aiutano ad arginare l'ansia e la paura dell'ignoto, l'importanza del contatto umano e delle relazioni sociali.
Una scrittura onirica, viva, sinestetica, che puoi vedere, annusare, toccare, respirare.
Siete immersi nella palude stagnante di letture noiose e monotone? Questa scrittrice fa per voi, non soltanto per la narrazione bizzarra e stravagante al punto giusto, ma per quel suo modo unico di scrivere, di creare frasi e parole animate, una scrittrice follemente geniale.
A fine lettura avevo una gran voglia di appendermi al collo un numeretto di cera per indicare il mio umore e forse lo farò e di addentare saponette croccanti.
Un segno invisibile e mio, quel segno particolare che ci rende quello che siamo, spaventati, confusi, a volte paranoici e strambi, chiusi nel nostro bozzolo angusto e sicuro, un segno che ci portiamo faticosamente addosso scolpito dentro, cercando di sopravvivere a giorni opachi e spenti che si incollano addosso come nebbia vischiosa e ad altri limpidi e luminosi come un cielo d'estate, trovando a tentoni la strada, crescendo, rischiando, sbagliando come in una fiaba dal finale incerto, che dobbiamo trovare il coraggio di scrivere Vivere.
***
"Ho preso dieci lezioni di danza, e il pomeriggio del mio primo saltello ho donato le scarpe in beneficenza. Ho avuto un solo ragazzo: in meno di due mesi, a letto si era trasformato in una statua. Sulla pista d'atletica correvo come una meteora, e mi sono sparata dritta fuori dall'orbita.
Ho smesso con i dolci per il gusto di vedere se ci riuscivo, naturalmente sì; una sera ho smesso di respirare finché i polmoni non hanno preso il sopravvento; ho smesso di toccarmi la pelle, dormendo con le mani sotto il cuscino.
Non ho smesso invece di tamburellare sul legno, cosa che facevo sempre. Era il mio modo di sigillare nelle radici e nella corteccia ogni cosa interrotta; ascolta, dico al legno... guarda bene cosa sto facendo. Prendi nota. Notalo.
Niente piano. Niente dolci. Niente atletica. Niente. Sono innamorata dello smettere.
A suo modo è un'arte, se ci pensate. Smettere bene richiede un innato senso della bellezza; bisogna saper sentire il momento della svolta, proprio quando il desiderio fa la sua comparsa, quello è il momento di darci un taglio, giù deciso, l'istante in cui lo smettere è maturo come una pesca che si fa dolce sull'albero: crack, si spacca il picciolo, la pesca cade per terra, nera e argento di mosche.
Ho avuto un solo ragazzo. Di solito era distratto ma una bella sera d'estate eravamo seduti di fronte a casa sua e le sue labbra si mossero sulla mia pelle come un quartetto d'archi e sentii che quella pesca era pronta a cadere dall'albero.
Ho smesso di andare al cinema.
Ho smesso di lavorare alla tavola calda.
Ho smesso di mangiare le uova sode in insalata.
Ho smesso di consultare gli atlanti."
"Adesso io portavo addosso un segno invisibile e mio. Diceva: Fanculo Ipocrita.
Mai una volta che mi guardasse e dicesse: Mona, capisco che c'è qualcosa che non va, e noto che sei più triste del solito.
Sentirmi dire una cosa del genere per me sarebbe valso un milione di dollari. Sarei stata sua schiava per sempre. Invece continuava imperterrito ad alternare i suoi numeri e a farsi tutto il giorno gli affari suoi e ad andare su e giù come un'altalena."
"A letto lei adesso indossa camicie da notte e sogna aeroplani. Lui sogna di correre nel deserto, tutto ginocchi, sfocato, la sabbia che schizza su dai talloni, il vento che gli fa lacrime gli occhi, e si sveglia di soprassalto, alle tre del mattino, con il cuore che batte forte e pensa: È la morte? È la vita? E anche lei si sveglia, ha il sonno leggero, e i polpastrelli sono freddi quando controllano il battito sulla gola di lui. È buio, c'è silenzio, due persone in casa, supine, solo due ne rimangono adesso, due finché non saranno una, e si riaddormentano entrambe, con le dita intrecciate sulla gola di lui come semplici gioielli rosa. Al risveglio lui si è già dimenticato. Lei ricorda, sola nel letto del mattino, guarda la parete battendo le palpebre, ma lui è già fuori che si versa i cereali nella tazza della colazione. Il cerchio è bagnato di rugiada e il giardino è lo stesso. Lui è lo stesso. Lei è la stessa."
"Mi chiedevo che vetro si fosse rotto nell'aula di disegno. Un bicchiere? Una finestra. Un paio di bicchieri? Un ninnolo finlandese. Un occhio di vetro? Una scarpetta. Le mie dita. La mia pelle.
La faccia di vetro del mio orologio: spaccala. Giù con il pugno: frantuma il vetro. Le due lancette si fermano. I più lunghi dieci minuti della mia vita. Sono finiti i dieci minuti? Guardo in basso. No no, dico, anche se il sole ormai sta sorgendo. I dieci minuti non sono ancora finiti. Tra dieci minuti me ne devo andare, ma mancano ancora dieci minuti. Lasciami fare un'altra bolla. Lascia che ti faccia vedere come si fa. Tre anni dopo tutto il sapone è stato consumato e i bambini sono cresciuti, l'aria è cristallina e il secchio è vuoto. Io e l'uomo siamo distesi scompostamente sull'asfalto, polmoni guasti, dita tagliate, gambe intrecciate. Puliti e stanchi.
Ho fame, gli dico, stringendogli forte la mano. Lui fa cenno di sì con la testa, attraversiamo il cancello ed entriamo nel giorno."
"Il pomeriggio era ancora chiaro e luminoso, e io mi misi a seguire le impronte degli altri ragazzi fino a casa dei miei, poi entrai nel salotto cinereo, accesi la plumbea tv, mi addormentai sognando sassi, nubi temporalesche, ratti e forchette."
"C'è qualcosa in te, Mona Gray che mi riempie il cuore."
"Stava imbrunendo e il cielo era blu di Prussia, c'era quella lucentezza che è post-tramonto ma pre-notte, aria come un abito da sera."


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