Abbiamo sempre vissuto nel castello, Shirley Jackson
"Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni..."
Cancelli ben serrati, un fitto bosco, una recinzione che delimita tutto il perimetro di Villa Blackwood, un masso nero separano nettamente l’interno dall'esterno, la vita degli abitanti della casa scandita da semplici e tranquille abitudini da tutto quello che c'è fuori, un mondo ostile, grigio, pieno d’odio.
Dentro c'è sicurezza, serenità, confortevole riparo. Fuori terrore e pericolo.
All'interno della villa tutto è rimasto immutato da anni, i giorni scorrono sempre uguali, il tempo sembra essersi cristallizzato in un eterno, immobile presente, gli abitanti trascorrono le loro giornate in armonia, dedicandosi alla cura dell’orto, alla cucina, alle faccende domestiche. Un microcosmo intimo e privato, che protegge da tutto quello che c’è fuori, qualcosa di minaccioso e tremendo che incombe e rischia di mandare in frantumi la quieta armonia familiare. Una dimora antica, elegante, imponente dove vivono le sorelle Mary Katherine e Constance Blackwood unite da un legame profondo e simbiotico e lo zio Julian, anziano e malato. Merricat la sorella minore ha diciotto anni, è l’unica che due volte alla settimana esce da quel rifugio rassicurante e affronta il mondo per fare la spesa e prendere libri in biblioteca. Una ragazza stramba che sogna di vivere sulla luna, parla con il gatto Jonas, ama profondamente la sorella e vuole proteggerla a tutti i costi. Ha stravaganti rituali e manie, parole magiche e oggetti talismano per allontanare gli estranei, tutto quello che può intaccare e alterare la tranquilla routine quotidiana per lei è male assoluto. Detesta gli abitanti del paese, gretti e meschini, la loro insopportabile ironia, le crudeli prese in giro di cui è spesso vittima, il mormorio alle spalle, gli sguardi morbosi e cattivi. Soltanto lei può difendere quella amorevole intimità domestica e proteggere Constance, la sorella maggiore.
Connie vive reclusa in quella casa da circa sei anni, lontana dagli sguardi e dalle chiacchiere malevole, il mondo la spaventa e atterrisce, ha tutto quello di cui ha bisogno nel suo nascondiglio protetto, dove si dedica con pazienza e affetto alla faccende domestiche e allo zio invalido, che ha bisogno di cure e attenzioni costanti a causa del suo precario stato di salute. Merricat intelligente ed eccentrica, buffa ed enigmatica si nasconde nel bosco, gioca col gatto, mangia dolcetti, elabora bizzarre teorie e seppellisce oggetti, un'adorabile, perfida sciocchina. Connie paziente e sorridente, luminosa e bellissima, lo zio Julian tutto preso dalle sue carte, una sorta di autobiografia.
L'arrivo improvviso del cugino Charles, il fantasma del cambiamento tanto temuto da Merricat, rompe l'equilibrio, mandando in frantumi il loro piccolo paradiso privato.
Ma in realtà dietro questa esistenza idilliaca e immutata nel tempo si celano un universo stagnante e soffocante, pensieri ossessivi e deliranti, solitudine, un’atmosfera malsana, opprimente, torbida. Un'inquietudine crescente affiora pagina dopo pagina. Dietro questa tranquilla quotidianità trapela la follia, sorridente, insensata, perversa. Follia nelle carte dello zio Julian che si ostina a rivivere quell’ultimo tragico giorno di sei anni prima, quando il resto della famiglia è stato misteriosamente avvelenato, confondendo passato e presente, quasi incredulo che sia accaduto davvero, follia nei pensieri e nei gesti sconclusionati di Merricat, follia nella reclusione volontaria di Connie, così dolce e devota.
La scrittrice non ha bisogno di alzare la voce nel dipingere tutto questo, sussurra appena, non utilizza un linguaggio efferato o effetti speciali terrificanti, pieni di sangue e orrore.
Il suo gioco è più sottile e astuto. Ti fa intravedere l’abisso profondo della follia e del male là dove non te lo aspetti, in una tranquilla famiglia, in paesani perbene con una vita ordinaria, una follia che con la sua furia distruttrice non risparmia nessuno, nessuno ne è immune. Non ci sono in questo romanzo a metà strada tra il gotico, il giallo e il thriller psicologico, fantasmi, mostri o creature terrificanti, il male non è racchiuso in eventi soprannaturali e spaventosi, ma si annida dentro la mente e il cuore di ciascun personaggio, nella dolce e confortante realtà quotidiana. Profuma di tè e biscotti, zucchero velenoso e mirtilli, fiori e verdure di stagione, boschi e prati verdi, si nutre di gesti amorevoli, un amore forte e indistruttibile, tenero, malato, asfittico, claustrofobico, egoista.
Il male non è là fuori, ma dentro di noi, nel buio della mente e dell'anima, non ha una logica razionale, è inspiegabile e oscuro.
Questa lucida follia pervade tutto il romanzo. Una narrazione ansiogena e inquietante, una scrittura garbata che cattura, fluida, incisiva, nitida, straniante, a tratti ironica, un'ironia nera, ricca di accurate e dettagliate descrizioni. C’è qualcosa di strano e perverso nel racconto di Merricat voce narrante, nelle sue parole deliranti, nella cucina che profuma di panpepato e frittelle, nei gesti amorevoli dei superstiti. Connie, Merricat e lo zio Julian sono tre sopravvissuti a questa assurda, incomprensibile follia, hanno intravisto l'abisso, se lo portano dentro, cucito addosso, mentre coltivano ostinatamente il proprio inferno privato, rannicchiati in se stessi, in una rassicurante immobilità che nulla può scalfire.
Tutto deve rimanere immutato così com'è, nulla dovrà mai cambiare, la felicità è racchiusa tra quelle stanche logore mura. Ed ecco le parole ripetute ossessivamente come una magica cantilena, una nenia da streghe, un gioco da bambine cattive che in un giorno lontano si sono smarrite e hanno perso la strada, risvegliandosi in una brutta fiaba.
Due brave sorelline che si vogliono bene e che nessuno potrà mai dividere, per sempre insieme nel loro inespugnabile castello sulla luna.
Dentro c'è sicurezza, serenità, confortevole riparo. Fuori terrore e pericolo.
All'interno della villa tutto è rimasto immutato da anni, i giorni scorrono sempre uguali, il tempo sembra essersi cristallizzato in un eterno, immobile presente, gli abitanti trascorrono le loro giornate in armonia, dedicandosi alla cura dell’orto, alla cucina, alle faccende domestiche. Un microcosmo intimo e privato, che protegge da tutto quello che c’è fuori, qualcosa di minaccioso e tremendo che incombe e rischia di mandare in frantumi la quieta armonia familiare. Una dimora antica, elegante, imponente dove vivono le sorelle Mary Katherine e Constance Blackwood unite da un legame profondo e simbiotico e lo zio Julian, anziano e malato. Merricat la sorella minore ha diciotto anni, è l’unica che due volte alla settimana esce da quel rifugio rassicurante e affronta il mondo per fare la spesa e prendere libri in biblioteca. Una ragazza stramba che sogna di vivere sulla luna, parla con il gatto Jonas, ama profondamente la sorella e vuole proteggerla a tutti i costi. Ha stravaganti rituali e manie, parole magiche e oggetti talismano per allontanare gli estranei, tutto quello che può intaccare e alterare la tranquilla routine quotidiana per lei è male assoluto. Detesta gli abitanti del paese, gretti e meschini, la loro insopportabile ironia, le crudeli prese in giro di cui è spesso vittima, il mormorio alle spalle, gli sguardi morbosi e cattivi. Soltanto lei può difendere quella amorevole intimità domestica e proteggere Constance, la sorella maggiore.
Connie vive reclusa in quella casa da circa sei anni, lontana dagli sguardi e dalle chiacchiere malevole, il mondo la spaventa e atterrisce, ha tutto quello di cui ha bisogno nel suo nascondiglio protetto, dove si dedica con pazienza e affetto alla faccende domestiche e allo zio invalido, che ha bisogno di cure e attenzioni costanti a causa del suo precario stato di salute. Merricat intelligente ed eccentrica, buffa ed enigmatica si nasconde nel bosco, gioca col gatto, mangia dolcetti, elabora bizzarre teorie e seppellisce oggetti, un'adorabile, perfida sciocchina. Connie paziente e sorridente, luminosa e bellissima, lo zio Julian tutto preso dalle sue carte, una sorta di autobiografia.
L'arrivo improvviso del cugino Charles, il fantasma del cambiamento tanto temuto da Merricat, rompe l'equilibrio, mandando in frantumi il loro piccolo paradiso privato.
Ma in realtà dietro questa esistenza idilliaca e immutata nel tempo si celano un universo stagnante e soffocante, pensieri ossessivi e deliranti, solitudine, un’atmosfera malsana, opprimente, torbida. Un'inquietudine crescente affiora pagina dopo pagina. Dietro questa tranquilla quotidianità trapela la follia, sorridente, insensata, perversa. Follia nelle carte dello zio Julian che si ostina a rivivere quell’ultimo tragico giorno di sei anni prima, quando il resto della famiglia è stato misteriosamente avvelenato, confondendo passato e presente, quasi incredulo che sia accaduto davvero, follia nei pensieri e nei gesti sconclusionati di Merricat, follia nella reclusione volontaria di Connie, così dolce e devota.
La scrittrice non ha bisogno di alzare la voce nel dipingere tutto questo, sussurra appena, non utilizza un linguaggio efferato o effetti speciali terrificanti, pieni di sangue e orrore.
Il suo gioco è più sottile e astuto. Ti fa intravedere l’abisso profondo della follia e del male là dove non te lo aspetti, in una tranquilla famiglia, in paesani perbene con una vita ordinaria, una follia che con la sua furia distruttrice non risparmia nessuno, nessuno ne è immune. Non ci sono in questo romanzo a metà strada tra il gotico, il giallo e il thriller psicologico, fantasmi, mostri o creature terrificanti, il male non è racchiuso in eventi soprannaturali e spaventosi, ma si annida dentro la mente e il cuore di ciascun personaggio, nella dolce e confortante realtà quotidiana. Profuma di tè e biscotti, zucchero velenoso e mirtilli, fiori e verdure di stagione, boschi e prati verdi, si nutre di gesti amorevoli, un amore forte e indistruttibile, tenero, malato, asfittico, claustrofobico, egoista.
Il male non è là fuori, ma dentro di noi, nel buio della mente e dell'anima, non ha una logica razionale, è inspiegabile e oscuro.
Questa lucida follia pervade tutto il romanzo. Una narrazione ansiogena e inquietante, una scrittura garbata che cattura, fluida, incisiva, nitida, straniante, a tratti ironica, un'ironia nera, ricca di accurate e dettagliate descrizioni. C’è qualcosa di strano e perverso nel racconto di Merricat voce narrante, nelle sue parole deliranti, nella cucina che profuma di panpepato e frittelle, nei gesti amorevoli dei superstiti. Connie, Merricat e lo zio Julian sono tre sopravvissuti a questa assurda, incomprensibile follia, hanno intravisto l'abisso, se lo portano dentro, cucito addosso, mentre coltivano ostinatamente il proprio inferno privato, rannicchiati in se stessi, in una rassicurante immobilità che nulla può scalfire.
Tutto deve rimanere immutato così com'è, nulla dovrà mai cambiare, la felicità è racchiusa tra quelle stanche logore mura. Ed ecco le parole ripetute ossessivamente come una magica cantilena, una nenia da streghe, un gioco da bambine cattive che in un giorno lontano si sono smarrite e hanno perso la strada, risvegliandosi in una brutta fiaba.
Due brave sorelline che si vogliono bene e che nessuno potrà mai dividere, per sempre insieme nel loro inespugnabile castello sulla luna.
"Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott'anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l'anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l'Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti".
"Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m'avveleni.
Merricat, disse Connie, non è ora di dormire?
In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire!"
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m'avveleni.
Merricat, disse Connie, non è ora di dormire?
In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire!"
"Non capivo cosa fosse successo ai miei occhi; uno il sinistro vedeva tutto d'oro, giallo e arancio, mentre l'altro vedeva solo gradazioni di azzurro, grigio e verde; forse un occhio serviva per la luce del giorno, e l'altro per la notte. Se tutti al mondo vedevano colori diversi con occhi diversi forse c'erano ancora tantissimi colori da inventare."