martedì 30 ottobre 2018

Abbiamo sempre vissuto nel castello

Abbiamo sempre vissuto nel castello, Shirley Jackson
"Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni..."
Cancelli ben serrati, un fitto bosco, una recinzione che delimita tutto il perimetro di Villa Blackwood, un masso nero separano nettamente l’interno dall'esterno, la vita degli abitanti della casa scandita da semplici e tranquille abitudini da tutto quello che c'è fuori, un mondo ostile, grigio, pieno d’odio.
Dentro c'è sicurezza, serenità, confortevole riparo. Fuori terrore e pericolo.
All'interno della villa tutto è rimasto immutato da anni, i giorni scorrono sempre uguali, il tempo sembra essersi cristallizzato in un eterno, immobile presente, gli abitanti trascorrono le loro giornate in armonia, dedicandosi alla cura dell’orto, alla cucina, alle faccende domestiche. Un microcosmo intimo e privato, che protegge da tutto quello che c’è fuori, qualcosa di minaccioso e tremendo che incombe e rischia di mandare in frantumi la quieta armonia familiare. Una dimora antica, elegante, imponente dove vivono le sorelle Mary Katherine e Constance Blackwood unite da un legame profondo e simbiotico e lo zio Julian, anziano e malato. Merricat la sorella minore ha diciotto anni, è l’unica che due volte alla settimana esce da quel rifugio rassicurante e affronta il mondo per fare la spesa e prendere libri in biblioteca. Una ragazza stramba che sogna di vivere sulla luna, parla con il gatto Jonas, ama profondamente la sorella e vuole proteggerla a tutti i costi. Ha stravaganti rituali e manie, parole magiche e oggetti talismano per allontanare gli estranei, tutto quello che può intaccare e alterare la tranquilla routine quotidiana per lei è male assoluto. Detesta gli abitanti del paese, gretti e meschini, la loro insopportabile ironia, le crudeli prese in giro di cui è spesso vittima, il mormorio alle spalle, gli sguardi morbosi e cattivi. Soltanto lei può difendere quella amorevole intimità domestica e proteggere Constance, la sorella maggiore.
Connie vive reclusa in quella casa da circa sei anni, lontana dagli sguardi e dalle chiacchiere malevole, il mondo la spaventa e atterrisce, ha tutto quello di cui ha bisogno nel suo nascondiglio protetto, dove si dedica con pazienza e affetto alla faccende domestiche e allo zio invalido, che ha bisogno di cure e attenzioni costanti a causa del suo precario stato di salute. Merricat intelligente ed eccentrica, buffa ed enigmatica si nasconde nel bosco, gioca col gatto, mangia dolcetti, elabora bizzarre teorie e seppellisce oggetti, un'adorabile, perfida sciocchina. Connie paziente e sorridente, luminosa e bellissima, lo zio Julian tutto preso dalle sue carte, una sorta di autobiografia.
L'arrivo improvviso del cugino Charles, il fantasma del cambiamento tanto temuto da Merricat, rompe l'equilibrio, mandando in frantumi il loro piccolo paradiso privato.
Ma in realtà dietro questa esistenza idilliaca e immutata nel tempo si celano un universo stagnante e soffocante, pensieri ossessivi e deliranti, solitudine, un’atmosfera malsana, opprimente, torbida. Un'inquietudine crescente affiora pagina dopo pagina. Dietro questa tranquilla quotidianità trapela la follia, sorridente, insensata, perversa. Follia nelle carte dello zio Julian che si ostina a rivivere quell’ultimo tragico giorno di sei anni prima, quando il resto della famiglia è stato misteriosamente avvelenato, confondendo passato e presente, quasi incredulo che sia accaduto davvero, follia nei pensieri e nei gesti sconclusionati di Merricat, follia nella reclusione volontaria di Connie, così dolce e devota.
La scrittrice non ha bisogno di alzare la voce nel dipingere tutto questo, sussurra appena, non utilizza un linguaggio efferato o effetti speciali terrificanti, pieni di sangue e orrore.
Il suo gioco è più sottile e astuto. Ti fa intravedere l’abisso profondo della follia e del male là dove non te lo aspetti, in una tranquilla famiglia, in paesani perbene con una vita ordinaria, una follia che con la sua furia distruttrice non risparmia nessuno, nessuno ne è immune. Non ci sono in questo romanzo a metà strada tra il gotico, il giallo e il thriller psicologico, fantasmi, mostri o creature terrificanti, il male non è racchiuso in eventi soprannaturali e spaventosi, ma si annida dentro la mente e il cuore di ciascun personaggio, nella dolce e confortante realtà quotidiana. Profuma di tè e biscotti, zucchero velenoso e mirtilli, fiori e verdure di stagione, boschi e prati verdi, si nutre di gesti amorevoli, un amore forte e indistruttibile, tenero, malato, asfittico, claustrofobico, egoista.
Il male non è là fuori, ma dentro di noi, nel buio della mente e dell'anima, non ha una logica razionale, è inspiegabile e oscuro.
Questa lucida follia pervade tutto il romanzo. Una narrazione ansiogena e inquietante, una scrittura garbata che cattura, fluida, incisiva, nitida, straniante, a tratti ironica, un'ironia nera, ricca di accurate e dettagliate descrizioni. C’è qualcosa di strano e perverso nel racconto di Merricat voce narrante, nelle sue parole deliranti, nella cucina che profuma di panpepato e frittelle, nei gesti amorevoli dei superstiti. Connie, Merricat e lo zio Julian sono tre sopravvissuti a questa assurda, incomprensibile follia, hanno intravisto l'abisso, se lo portano dentro, cucito addosso, mentre coltivano ostinatamente il proprio inferno privato, rannicchiati in se stessi, in una rassicurante immobilità che nulla può scalfire.
Tutto deve rimanere immutato così com'è, nulla dovrà mai cambiare, la felicità è racchiusa tra quelle stanche logore mura. Ed ecco le parole ripetute ossessivamente come una magica cantilena, una nenia da streghe, un gioco da bambine cattive che in un giorno lontano si sono smarrite e hanno perso la strada, risvegliandosi in una brutta fiaba.
Due brave sorelline che si vogliono bene e che nessuno potrà mai dividere, per sempre insieme nel loro inespugnabile castello sulla luna.
 
"Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott'anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l'anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l'Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti".
 
"Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m'avveleni.
Merricat, disse Connie, non è ora di dormire?
In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire!"
 
"Non capivo cosa fosse successo ai miei occhi; uno il sinistro vedeva tutto d'oro, giallo e arancio, mentre l'altro vedeva solo gradazioni di azzurro, grigio e verde; forse un occhio serviva per la luce del giorno, e l'altro per la notte. Se tutti al mondo vedevano colori diversi con occhi diversi forse c'erano ancora tantissimi colori da inventare."

 

 


sabato 20 ottobre 2018

Second Hand. Una storia d'amore

Second Hand. Una storia d'amore, Michael Zadoorian
"Trovare un nuovo impiego per un oggetto abbandonato è un gesto di purezza cristallina."
Richard vive in una piccola e triste città alla periferia di Detroit, la sua vita è scandita da ritmi sempre uguali e confortanti abitudini, ama la ripetitività banale e rassicurante del quotidiano.
Ha un negozio di oggetti usati, di seconda mano, è uno "junker", un cacciatore di cianfrusaglie scovate nei mercatini, nelle svendite per sgombero di case private o garage, nell'Esercito della Salvezza.
Un lavoro, un hobby, un'ossessione, una passione, una filosofia di vita.
Poltrone, bicchieri, orologi da cucina, lampade, riviste, divani, tavolini, una miriade di oggetti strambi ed eccentrici. Attraverso questi oggetti polverosi e fuori moda appartenuti ad altre persone (morte o finite in casa di riposo) e ad altre epoche (i gloriosi e ruggenti anni cinquanta, sessanta, settanta, ottanta) riesce a entrare in contatto con il loro passato, stabilendo un legame segreto, qualcosa delle storie, del vissuto di quelle persone rimane intrappolato in quelle cose di cui non può fare a meno. In ogni oggetto che tocchiamo e che ci appartiene, che abbiamo sentito davvero nostro in quel momento della nostra vita rimane qualcosa di noi, una scintilla, un'illuminazione che si trasmette a chi entrerà in contatto dopo di noi con quell'oggetto per hobby o pura e semplice follia.
Vecchie radio, sedie colorate, tazze, sveglie, cucchiaini, fermacravatte tutto può essere epifania e istante di pura illuminazione. Sono i "momenti junk", vere e proprie tempeste emozionali che possono travolgere e sconvolgere all'improvviso, mescolando passato e presente. Così magari un vecchio libro di ricette può farti piangere per ore senza ritegno o quel giocattolo polveroso che tanto ricorda l'infanzia perduta deve essere tuo a tutti i costi.
Richard è un ragazzo solitario, sensibile, ironico, vive protetto nel suo mondo di oggetti rigorosamente di seconda mano che riempiono casa e negozio. Detesta le cose nuove, sono noiose, "non hanno storia, non vibrano". Attraverso le cose possedute dai genitori ormai scomparsi scoprirà cose inedite sul passato dei suoi, che non avrebbe mai sospettato. Il passato getta nuova luce sull'incerto presente. Ama la rassicurante routine quotidiana ma un bel giorno tutto questo si incrina. La perdita della madre e l'incontro con Theresa mandano di colpo in frantumi il suo bozzolo rassicurante.
Richard e Theresa, due solitudini che si incontrano e si sfiorano.
Theresa è una ragazza misteriosa, lunatica, inquieta, irrisolta, lavora in un rifugio per animali abbandonati, è tormentata da brutti incubi, ama i gatti, gli scheletri e gli oggetti usati, è una "dea delle cianfrusaglie". Pallida, tormentata, a tratti dura ma molto fragile. Tra i due è subito passione travolgente ma anche tremendo casino, quando due pianeti opposti entrano in rotta di collisione.
Un libro ironico e divertente che si legge rapidamente, che nasconde però dietro l'apparente leggerezza una profonda malinconia e inquietudine. Una scrittura semplice e diretta che racconta la perdita di chi amiamo, il tempo che scorre inesorabile, l'amore in tutte le sue forme che non è sempre tranquillo e sereno, ma è fatto spesso di scontri, burrasche, paure, scelte difficili che logorano dentro, ma anche crescita, casino tremendo e bellissimo per andare avanti appoggiandosi all'altro per superare i momenti bui.
Un libro tenero, profondo e originale che sa regalare riflessioni intense sulla vita e la morte dietro l'apparente semplicità.
 
***
"Personalmente, trovo che le cose nuove siano noiose. Non hanno storia, non vibrano. Mi sento più a mio agio con le cianfrusaglie, la roba di seconda mano. La parola stessa è rivelatrice: altre mani hanno toccato quell'oggetto. Pensate a tutte le cose che tocchiamo ogni giorno, ai milioni di piccoli legami che tengono insieme le nostre vite (...) E se davvero tutte quelle cose assorbissero una minuscola scintilla di voi, come se il grasso sulle vostre dita contenesse l'essenza della vostra anima? Allora pensate a tutte le cose che avete posseduto, a tutto ciò che vi è passato tra le mani. Dove saranno finite, quelle cose? Pensate ai milioni di altre vite che avete sfiorato attraverso le cose che avete posseduto, e che portano la vostra essenza. Incredibile, vero?
Oh, merda. Avete ragione. La maggior parte di quelle cose è quasi di sicuro in una discarica in New Jersey. Ma sono convinto che quando possiedi qualcosa che è appartenuto a un'altra persona, stabilisci un contatto segreto con lei, con il suo passato. E' un modo per toccare una persona, senza incasinarsi con i sentimenti.
Ecco cosa rappresentano gli oggetti di seconda mano, per me. Ma ovviamente ci sarà sempre gente che si domanderà solo se quelle mani fossero lavate come si deve."
 
"Avete mai fatto caso che più una persona invecchia, più grande diventa la sua automobile? E' come se il numero di anni trascorsi sulla Terra fosse direttamente proporzionale ai metri quadri di lamiera. Ho una teoria, in merito. Più si invecchia, più roba si possiede. Perché? Perché le cose ci proteggono. Sono una zavorra, una specie di sistema di resistenza passiva alla mortalità."
 
"Noi che lavoriamo con le cianfrusaglie, raccogliamo cose belle e cose brutte, cose bizzarre e cose eleganti, cose di valore e cose inutili, e a volte ci dimentichiamo la differenza, o facciamo finta di non saperla. Lo facciamo, be'... perché non dovremmo? Ne abbiamo facoltà. I junker sanno che ognuno ha il diritto di attribuire alle cose il valore che vuole, che non siamo tenuti ad amare le cose che ci dicono di amare, e che è bello amare ciò che non sembra avere alcun valore.
Quello che so, tutto ciò che so, è che questo è uno dei miei momenti, e che le nostre vite sono scandite da momenti come questo, qualche secondo qua e là, istantanee che solo noi vediamo e ricordiamo, nel modo in cui solo noi le possiamo ricordare. Sono questi momenti ciò che portiamo con noi, ciò che si stacca dai nostri polpastrelli, ciò che le persone e le cose che tocchiamo assorbono. E' ciò che portiamo con noi fino alla morte, sono i veri oggetti della nostra vita, i nostri resti, le nostre cianfrusaglie."

 

 

 



martedì 16 ottobre 2018

Anonimo veneziano

Anonimo veneziano, Giuseppe Berto
Venezia brumosa e autunnale, la nebbia novembrina che avvolge calli e antichi palazzi, Venezia malinconica, onirica, decadente, marcia, agonizzante, una città che torna a essere fango, bella da morire. Questa città non è soltanto sfondo sfumato da cartolina a questa triste vicenda, ma correlativo oggettivo dello stato d'animo dei due protagonisti, una città che vive e respira con loro.
Lui e Lei. Non hanno nome, sono soltanto un uomo e una donna.
Lui ha quarant'anni, abiti sgualciti, una vaga trasandatezza, un genio sfortunato, un musicista di talento, un cialtrone squattrinato, un eterno ragazzo dallo sguardo fermo, ironico, a tratti disperato. Lei è una giovane donna bella ed elegante, curata, una donna che un tempo ha amato quest'uomo, ha sofferto molto e ora ha paura. Non sa perché lui abbia voluto incontrarla a Venezia in un nebbioso giorno di novembre, dopo anni di oblio.
Ora è lì davanti a lui, occhi bassi, sulla difensiva, chiusa in se stessa, scostante, senza alcuna tenerezza.
Eppure in un tempo lontano sono stati marito e moglie, per la legge lo sono ancora, malgrado lei abbia un nuovo compagno. Lui è il padre di suo figlio.
Un amore tormentato, distruttivo, masochista, un amore che si nutre di passione e sofferenza, che lacera e ferisce. Un amore forte, tenace, violento, assoluto, che brucia come fiamma e lascia dietro di sé cenere e odio.
Tra i due ci sono litigi, discussioni, schermaglie velenose, il passato che ritorna rabbioso col suo carico di recriminazioni e rancore, un passato mai dimenticato. Volano accuse reciproche, infedeltà, assenze, abbandoni, nuovi amori di convenienza.
Lui si diverte a provocarla e a ferirla perché non riesce a tollerare quello sguardo lontano, diffidente, spaventato. La vuole disperatamente lì con sé nel suo effimero presente. Ha bisogno di lei. Non può farne a meno. Lei è sulla difensiva, teme un qualche imbroglio, che lui voglia portarle via il figlio o spillarle denaro, ora che con fatica è diventata una donna benestante, con una vita familiare tranquilla e agiata.
A spasso insieme per la città in un giorno di novembre, prima che il treno della sera la riporti a Milano. Una manciata di ore per fare i conti con un passato dolente e scoprire il motivo di quell'incontro misterioso e inatteso.
E poi lentamente l'odio e il rancore si sciolgono, riaffiorano i ricordi belli, i tempi felici, quando erano due ragazzi giovani affamati di vita e d'amore. Le barriere difensive, le brutte parole, l'ironia pungente e cattiva vengono meno. Ci sono un uomo e una donna che si amano ancora malgrado tutto il male che si sono fatti, sono lì senza maschera, occhi negli occhi, labbra su labbra in un bacio che è istante eterno, perfetto e compiuto in sé in quel momento e non ha bisogno di nient'altro.
La casa di un tempo, i sogni e quella vecchia trattoria ci sarà ancora? Il dialogo diventa aperto e sincero, si depongono le armi e quell'inquietudine, quella disperazione nello sguardo di lui vengono all'improvviso svelati. Il tempo si dilata e poi precipita. La verità brutale e spietata è talmente sconvolgente da sembrare irreale e poi parole vane, faticose, inutili, la voglia di scappare via e restare lì per sempre, la voglia disperata di morire insieme anche se è impossibile, anche se non servirebbe a nulla, perché la verità tremenda e atroce a cui nessuno può sfuggire è che si muore soli.
Un uomo che cerca la donna che non ha mai dimenticato e che ama ancora per vincere la sua paura più grande, "la paura della paura", per avere negli occhi e nel cuore il ricordo di quell'ultimo incontro, per provare a lenire la sofferenza e trovare il coraggio di accettare il proprio destino, andarsene con dignità.
In questo romanzo breve i dialoghi serrati e intensi, gli scorci descrittivi delineano la psicologia dei personaggi, le loro paure e inquietudini, personaggi umani, vinti che non si arrendono. La città, la musica, l'amore ritrovato e mai dimenticato ultimi baluardi contro la paura più grande, l'ultimo viaggio verso il mistero e l'ignoto. Numerosi i riferimenti all'Ecclesiaste e al celebre romanzo di Thomas Mann "La morte a Venezia", dove Venezia diventa scenario di amore e morte, bellissima, torbida, struggente.
Nato nel 1966 come sceneggiatura per l'omonimo film diretto da Enrico Maria Salerno che ebbe un enorme successo di pubblico, dramma in due atti edito da Rizzoli nel 1971, poi rielaborato nella forma di romanzo breve arricchito da brani narrativi nel 1976, questo libro racchiude le tematiche da sempre care allo scrittore, il tempo che scorre inesorabile, l'uomo che si confronta con il mistero più grande, la morte, il coraggio di affrontarla con dignità.
E infine la musica, il concerto per oboe e archi composto da un musicista sconosciuto del 1700, "l'Anonimo veneziano" di Alessandro Marcello, quelle note struggenti che sovrastano tutto, superando le miserie personali, gli amori impossibili, la musica come sogno di gloria, riscatto estremo, speranza, frammento d'eternità sottratto alla morte, qualcosa di vero e intenso da lasciare alle persone amate, sperando di sopravvivere nel loro ricordo e forse conquistare brandelli d'infinito.
Non è poi forse questo il fine ultimo dell'arte? Renderci immortali nel cuore di chi amiamo, per sempre.
 
***

"Alle quattro del pomeriggio stavamo già a letto insieme, in quella camera gelata, in fondamenta della Verona. Ti ricordi la mia camera in fondamenta della Verona?"
Certo, che si ricorda. Come si potrebbe dimenticare una camera in cui si va a letto con un uomo, quando è la prima volta che si va a letto con un uomo? Ed è bene rammentarlo, a lui, che era la prima volta. Sembra che tragga un po' troppo vantaggio dalla circostanza che lei non aveva impiegato che sei ore per decidere d'infilarglisi nel letto. "Era la prima volta" dice puntigliosa. "La prima volta che andavo con un uomo."
"E l'uomo era sbagliato" egli conclude con sorprendente sconforto. "Succede sempre così."
"Quando chi ti fa soffrire è uno che ami, l'unica possibilità di difesa è amarlo di meno, se ci riesci.
"Cos'hai?" Lei domanda.
Lui si ferma per guardarla e dice: "Poveri capelli tuoi, sono diventati spinaci."
"Sono brutta?"
"Direi di sì. Lascia che ti guardi meglio".
Le prende il viso tra le mani, le guarda dentro gli occhi, senza parole, chiedendole tuttavia aiuto, ormai è evidente che sta chiedendo aiuto. "Cos'hai?" essa ripete.
Si mette a scostarle i capelli, nel solito gioco d'amore ricordato. "Niente" dice.
"A me non puoi dire niente."
"Già, tu mi leggi dentro. Me n'ero dimenticato."
Fa di tutto per difendersi e lei n'è indispettita, e soprattutto non capisce. "Torni a farmi paura" dice.
"Ho di nuovo paura" lei dice. "Tu puoi farmi del male."
Questa volta, non si sogna nemmeno di smentirla. "Più di quanto non immagini" dice.
"Sta a vedere se io mi lascio fare del male."
"Non puoi evitarlo. Sei innamorata di me, sempre."
(...) Lei ora si rivolta davvero. " E a me non piace affatto arrabbiarmi" dice con forza. " E andiamo via da qui, non posso sopportare questi posti."
"Hai tanta paura del passato?"
"Non si tratta di passato. E' che non posso più tollerare l'odore di questa città. Muore, torna ad essere fango.
Lui stranamente sorride, colpito dalla frase che sembra stimolare in lui un compiacimento perverso.
"Ma è proprio questo che la fa bella: muore."
"Ormai guardo le cose in un modo curioso, perché vorrei raccogliermele dentro. Ti sei accorta di come ti ho guardata tutto il giorno? Col tormento di non perdere niente di te. Non voglio perderti. Quando non vedrò più nulla, voglio vedere te, occhi e capelli e bocca, e le piccole rughe, fino all'ultimo istante."
Lei ora sta piangendo senza ritegno, ma anche senza rumore. "Basta" riesce a dire.
"Non piangere" lui le dice. "Ora la smetto. La smetto davvero. Mi faccio schifo. Però una cosa devi capire: io ti amo anche senza far l'amore."
"Lo so"
"Non ti ho mai amata quanto adesso. Altrimenti, perché mai ti avrei chiamata?"
"Neppure io ti ho mai amato quanto adesso"
"Allora va tutto bene. Nel migliore dei modi possibili."
"Ti scongiuro" egli le dice "Ti scongiuro, di' qualcosa, fa' qualcosa di sbagliato. Ho bisogno di odiarti, capisci. Se arrivo ad odiarti, non farò tanta fatica senza di te."
***
"Posso dire che in vita mia non avevo mai lavorato tanto per scrivere tanto poco, né mi ero mai così abbandonato al tormentoso piacere di permettere ai pensieri di cercarsi a lungo le parole più appropriate." (G. Berto)
 
 
 
 

sabato 6 ottobre 2018

Un segno invisibile e mio

Un segno invisibile e mio, Aimee Bender
"Il giorno del mio ventesimo compleanno mi sono comprata un'ascia."
Che libro WOW! Un wow sincero, urlato a squarciagola, euforico, sfrenato. A fine lettura ero turbata, incredula, stregata da questa scrittura intensa e originale. Dopo tante letture piatte, noiose, banali, mi sono imbattuta per caso in questo libro e ho detto perché no?
Mi piaceva la foto di copertina, la ragazza con il vestito con i cuoricini rosa, la coda di cavallo castana e un'ascia dietro la schiena.
Non so cosa mi aspettassi di preciso ma di sicuro non quel piacere irrefrenabile di leggere, inghiottendo vorticosamente pagine incurante del tempo tic tac, ore e ore senza riuscire a staccarmi da questo strano incantesimo e poi di notte arrivo all'ultima riga dell'ultima pagina e voglio ricominciare a leggere tutto di nuovo, ubriaca di lettere e inchiostro.
Uno stile brillante, innovativo, vivo, splendente, limpido come un cielo d'agosto, che non si confonde con nient'altro, è di Aimee e basta, una scrittura che sembra un arcobaleno variopinto, bollicine spumeggianti, saltelli sfrenati di bambini che saltano la corda, palloncini in volo, bolle di sapone colorate, gustosi lecca lecca e nuvole soffici di panna. Ma anche liquirizia nera, nodo in gola, amaro in bocca, acqua dagli occhi, quando vorresti piangere ma ti trattieni in quelle giornate brutte e storte, insomma per capirci quelle che si meritano uno o due al massimo. Eppure anche quando affiora la malinconia lo stile resta lieve, come un palloncino disperso nell'azzurro, lassù sempre più in alto.
In questo libro si muovono personaggi eccentrici, stravaganti, originali e imperfetti. Bambini vivaci e buffi con una passione per i numeri, un professore di algebra che porta appeso al collo il proprio umore sotto forma di numeri di cera, dall'uno al quarantadue, gioia assoluta. L'insegnante di scienze che soffia bolle di sapone e porta in scena tremende malattie, Lisa curiosa e attenta con la propria storia complicata, troppo grande per il suo metro e venti.
E poi Mona Gray vent'anni appena compiuti con le sue strambe manie e paure, il rassicurante tamburellare sul legno, la passione per la matematica e i numeri, amici ordinati e confortanti nel caos dell'universo, campionessa di atletica, studentessa modello, insegnante brillante, ragazza mangia sapone intelligente e sensibile che sta cercando il suo posto nel mondo, terribilmente giovane e spaventata da tutto, innamorata di un'ascia, bellezza sfavillante di legno e acciaio. Mona e la sua particolare famiglia. Una madre che sogna viaggi lontani e intanto lavora nell'agenzia turistica vicina al parco delle anatre e suo padre, dottore della pelle in quell'ospedale di vetro blu che sembra un'enorme specchio di acqua azzurra e domina l'intera città, che di colpo inizia a spegnersi, a ingrigire, vittima di una misteriosa e ignota malattia.
Una patina polverosa e grigiastra aleggia sulla casa, sui mobili, la luce affievolisce e Mona di punto in bianco inizia a smettere di fare tutto, quasi tutto e a sbiadire anche lei, ma la passione per i numeri rimane. E quando inizia a smettere mi fa venire in mente qualcuno di mia conoscenza, una ragazza introversa, brava a raccontarsi bugie, abilissima a fuggire e a nascondersi, chiudendosi in se stessa dentro un guscio impenetrabile.
Un libro terribile come una fiaba oscura, vibrante, intenso, surreale, a suo modo tenero nell'affrontare tematiche importanti, la paura della morte e delle malattie che può ibernarci paralizzando la nostra voglia di vivere, la depressione male oscuro e strisciante, le piccole ossessioni e compulsioni che ci aiutano ad arginare l'ansia e la paura dell'ignoto, l'importanza del contatto umano e delle relazioni sociali.
Una scrittura onirica, viva, sinestetica, che puoi vedere, annusare, toccare, respirare.
Siete immersi nella palude stagnante di letture noiose e monotone? Questa scrittrice fa per voi, non soltanto per la narrazione bizzarra e stravagante al punto giusto, ma per quel suo modo unico di scrivere, di creare frasi e parole animate, una scrittrice follemente geniale.
A fine lettura avevo una gran voglia di appendermi al collo un numeretto di cera per indicare il mio umore e forse lo farò e di addentare saponette croccanti.
Un segno invisibile e mio, quel segno particolare che ci rende quello che siamo, spaventati, confusi, a volte paranoici e strambi, chiusi nel nostro bozzolo angusto e sicuro, un segno che ci portiamo faticosamente addosso scolpito dentro, cercando di sopravvivere a giorni opachi e spenti che si incollano addosso come nebbia vischiosa e ad altri limpidi e luminosi come un cielo d'estate, trovando a tentoni la strada, crescendo, rischiando, sbagliando come in una fiaba dal finale incerto, che dobbiamo trovare il coraggio di scrivere Vivere.
***
"Ho preso dieci lezioni di danza, e il pomeriggio del mio primo saltello ho donato le scarpe in beneficenza. Ho avuto un solo ragazzo: in meno di due mesi, a letto si era trasformato in una statua. Sulla pista d'atletica correvo come una meteora, e mi sono sparata dritta fuori dall'orbita.
Ho smesso con i dolci per il gusto di vedere se ci riuscivo, naturalmente sì; una sera ho smesso di respirare finché i polmoni non hanno preso il sopravvento; ho smesso di toccarmi la pelle, dormendo con le mani sotto il cuscino.
Non ho smesso invece di tamburellare sul legno, cosa che facevo sempre. Era il mio modo di sigillare nelle radici e nella corteccia ogni cosa interrotta; ascolta, dico al legno... guarda bene cosa sto facendo. Prendi nota. Notalo.
Niente piano. Niente dolci. Niente atletica. Niente. Sono innamorata dello smettere.
A suo modo è un'arte, se ci pensate. Smettere bene richiede un innato senso della bellezza; bisogna saper sentire il momento della svolta, proprio quando il desiderio fa la sua comparsa, quello è il momento di darci un taglio, giù deciso, l'istante in cui lo smettere è maturo come una pesca che si fa dolce sull'albero: crack, si spacca il picciolo, la pesca cade per terra, nera e argento di mosche.
Ho avuto un solo ragazzo. Di solito era distratto ma una bella sera d'estate eravamo seduti di fronte a casa sua e le sue labbra si mossero sulla mia pelle come un quartetto d'archi e sentii che quella pesca era pronta a cadere dall'albero.
Ho smesso di andare al cinema.
Ho smesso di lavorare alla tavola calda.
Ho smesso di mangiare le uova sode in insalata.
Ho smesso di consultare gli atlanti."
"Adesso io portavo addosso un segno invisibile e mio. Diceva: Fanculo Ipocrita.
Mai una volta che mi guardasse e dicesse: Mona, capisco che c'è qualcosa che non va, e noto che sei più triste del solito.
Sentirmi dire una cosa del genere per me sarebbe valso un milione di dollari. Sarei stata sua schiava per sempre. Invece continuava imperterrito ad alternare i suoi numeri e a farsi tutto il giorno gli affari suoi e ad andare su e giù come un'altalena."
"A letto lei adesso indossa camicie da notte e sogna aeroplani. Lui sogna di correre nel deserto, tutto ginocchi, sfocato, la sabbia che schizza su dai talloni, il vento che gli fa lacrime gli occhi, e si sveglia di soprassalto, alle tre del mattino, con il cuore che batte forte e pensa: È la morte? È la vita? E anche lei si sveglia, ha il sonno leggero, e i polpastrelli sono freddi quando controllano il battito sulla gola di lui. È buio, c'è silenzio, due persone in casa, supine, solo due ne rimangono adesso, due finché non saranno una, e si riaddormentano entrambe, con le dita intrecciate sulla gola di lui come semplici gioielli rosa. Al risveglio lui si è già dimenticato. Lei ricorda, sola nel letto del mattino, guarda la parete battendo le palpebre, ma lui è già fuori che si versa i cereali nella tazza della colazione. Il cerchio è bagnato di rugiada e il giardino è lo stesso. Lui è lo stesso. Lei è la stessa."
"Mi chiedevo che vetro si fosse rotto nell'aula di disegno. Un bicchiere? Una finestra. Un paio di bicchieri? Un ninnolo finlandese. Un occhio di vetro? Una scarpetta. Le mie dita. La mia pelle.
La faccia di vetro del mio orologio: spaccala. Giù con il pugno: frantuma il vetro. Le due lancette si fermano. I più lunghi dieci minuti della mia vita. Sono finiti i dieci minuti? Guardo in basso. No no, dico, anche se il sole ormai sta sorgendo. I dieci minuti non sono ancora finiti. Tra dieci minuti me ne devo andare, ma mancano ancora dieci minuti. Lasciami fare un'altra bolla. Lascia che ti faccia vedere come si fa. Tre anni dopo tutto il sapone è stato consumato e i bambini sono cresciuti, l'aria è cristallina e il secchio è vuoto. Io e l'uomo siamo distesi scompostamente sull'asfalto, polmoni guasti, dita tagliate, gambe intrecciate. Puliti e stanchi.
Ho fame, gli dico, stringendogli forte la mano. Lui fa cenno di sì con la testa, attraversiamo il cancello ed entriamo nel giorno."
"Il pomeriggio era ancora chiaro e luminoso, e io mi misi a seguire le impronte degli altri ragazzi fino a casa dei miei, poi entrai nel salotto cinereo, accesi la plumbea tv, mi addormentai sognando sassi, nubi temporalesche, ratti e forchette."
"C'è qualcosa in te, Mona Gray che mi riempie il cuore."
"Stava imbrunendo e il cielo era blu di Prussia, c'era quella lucentezza che è post-tramonto ma pre-notte, aria come un abito da sera."