domenica 19 marzo 2017

Revolutionary Road

Revolutionary Road, Yates

Protagonista assoluto di questo libro è il "disperato vuoto" di una famiglia borghese americana degli anni 50, che affiora dietro le apparenze di una vita perfetta e tranquilla, la crisi di una coppia che diventa tragedia sullo sfondo di confortanti e colorate villette immerse nella natura.
Un libro che va da Madame Bovary al grande Gatsby, mettendo in scena impietosamente il crollo del grande sogno americano.
L'ho divorato in pochi giorni, una delle letture più intense e dolorose dell'ultimo periodo.
Questo libro è una notte insonne, un incubo che ti lascia senza fiato perché si nasconde dentro la rassicurante quotidianità domestica.
Non fatevi ingannare dal sereno quartiere residenziale di Revolutionary Road, con le finestre panoramiche, le casette bianche o dai colori pastello, il prato verde, i bambini che giocano e la giovane coppia innamorata. Dietro l'apparente tranquillità borghese si cela uno scenario spaventoso.
Solitudine, disillusione, incomunicabilità, disamore, insoddisfazione che esplodono in rabbia e parole vomitate addosso che feriscono e annientano. Un amore che si autodistrugge nel tempo in un crescendo di discussioni violente a cui seguono stanche bonacce, tregue precarie, confortanti sorrisi e gelidi silenzi.
Frank Wheeler ha ambizioni e sogni vaghi, un lavoro monotono e noioso, crede di essere diverso dai vicini che sottilmente disprezza, ma in realtà incarna alla perfezione tutto quello che detesta negli altri. Un uomo po' egoista, comprensivo quando gli fa comodo, bravo nel recitare il ruolo di marito, padre, amico brillante, abile oratore, con la sua bella casa rassicurante e inquietante nel buio, le precarie e fragili certezze, le parole persuasive e avvincenti, un pugno ogni tanto e l'amante ventenne.
April è una donna profondamente sola e inquieta, insoddisfatta, imprigionata nel ruolo sempre più asfittico di moglie e madre, attrice fallita, una donna che ammette candidamente di non sapere chi sia, persa in un irreale desiderio di mollare tutto e ricominciare altrove, lontano.
Parigi diventa il sogno dolce e crudele, la panacea di tutti i mali, un'illusione fantastica e letale.
E poi John Givings il pazzo, il fool di shakespeariana memoria, l'unico che riesce a vedere davvero le cose nel loro nitido orrore, urlandole addosso agli altri senza ritegno o pudore, l'infelicità e il vuoto dietro le chiacchiere cortesi, le bevute tra amici, le speranze disilluse, i sogni infranti.
Una prosa lucida, ironica, tagliente, affilata come una lama che mette a nudo l'ipocrisia e il raggelante vuoto dell' universo borghese e di coppia.

"E' come se tutti si fossero tacitamente accordati per vivere in uno stato di perenne illusione. Al diavolo la realtà! Dateci un bel po’ di stradine serpeggianti e di casette dipinte di bianco, rosa e celeste; fateci essere tutti buoni consumatori, fateci avere un bel senso di appartenenza e allevare i figli in un bagno di sentimentalismo ― papà è un grand’uomo perché guadagna quanto basta per campare, mamma è una gran donna perché è rimasta accanto a papà per tutti questi anni ― e se mai la buona vecchia realtà dovesse venire a galla e farci bu!, ci daremo un gran da fare per fingere che non sia accaduto affatto."

"Come apparivano piccoli e a modo e ridicolmente seri gli altri uomini, con i loro capelli a spazzola punteggiati di grigio e il colletto della camicia fermato da due bottoncini, e i piedini frettolosi! Ve n'erano frotte interminabili, disperate, che si affrettavano per la stazione e lungo le strade, e tra un'ora sarebbero stati tutti immobili ai loro posti. I palazzi di uffici che li attendevano nel cuore di Manhattan li avrebbero inghiottiti e racchiusi, in modo che a starsene in un grattacielo e guardare quello di fronte, oltre il canyon della strada, sarebbe stato come osservare un grigio, silenzioso alveare in cui erano allineati centinaia di ometti dal volto roseo e la camicia bianca, eternamente intenti a spostare scartoffie e a parlare accigliati al telefono, continuando con dedizione il loro stupido spettacolino, sotto la suprema indifferenza delle nubi primaverili che passavano veloci."

C'era appena luce sufficiente perché lui riuscisse a vedere dov'era il volto di lei, ma non abbastanza per scorgerne l'espressione o per dire se avesse o meno un' espressione.
"Non si tratta di questo. Sinceramente. Il fatto è che non so chi sei."
Vi fu un istante di silenzio. "Non parlare per enigmi", sussurrò lui.
"Non sono enigmi. Davvero non so chi sei."
Se non poteva scorgere il volto di April, poteva almeno toccarlo. Lo fece con la delicatezza d'un cieco, sfiorandolo coi polpastrelli dalla tempia fino all'incavo delle guance.
"E anche se lo sapessi, disse April, temo proprio che non servirebbe a nulla, perchè, vedi, non so neppure chi sono io."

"Poi scoprivi che portavi avanti la tua esistenza come la Compagnia dell'Alloro recitava la foresta pietrificata e come Steve Kovick suonava la batteria, in maniera zelante e sciatta e pretenziosa e tutta sbagliata; scoprivi che dicevi si quando pensavi no, e "dobbiamo affrontare insieme questa faccenda" quando pensavi esattamente il contrario; poi ti trovavi ad aspirare puzzo di benzina quasi fosse profumo di fiori, e ad abbandonarti a un deliro d'amore sotto il peso d'un imbranato, dalle guance rosse, che emetteva grugniti e che neppure ti piaceva - Shep Campbell- e poi ti trovavi faccia a faccia, nel buio più completo, con la consapevolezza di non sapere chi fossi.
E di chi altri era la colpa?"
(...)
"Ci hai pensato bene , April? Non metterti a fare qualcosa senza prima ..."
Ma April ormai non aveva più bisogno di alcun consiglio nè di alcuna istruzione. Era calma e tranquilla, ora, sapendo quel che aveva sempre saputo, quello che nè i suoi genitori nè zia Claire nè Frank nè chiunque altro avevano mai dovuto insegnarle : che se si vuol fare qualcosa di assolutamente onesto, qualcosa di vero, alla fine si scopre sempre che è una cosa che va fatta da soli."

Il miglior commento all'opera e alla figura stessa di Yates rimangono le parole di Andre Dubus, suo collega e amico :

"Sono le tue mattine che immagino, Dick; con me non ti sei mai lamentato del tuo corpo, perciò ti immagino svegliarti in una stanza, un mondo, che sembrava avere aria a sufficienza per tutti tranne che per te, e ricomporti , indossare quegli abiti da signore che indossavi sempre, e condurre il tuo grande cuore e la tua limpida coscienza di scrittore alla scrivania, al blocco di carta, alla matita. Continuavi a farlo e basta, una mattina dopo l'altra, e mi ispiravi, mi infondevi coraggio, opponendo quella resistenza mattutina alla tua carne e alle tue circostanze, scrivendo la tua prosa che era come una lama, una nuvola, una fiamma, un respiro.
Perciò riposa, mio vecchio amico. Ti vorrò sempre bene. E a proposito di tutte le parole che hai scritto in tutti i libri che sono sul mio scaffale, dirò quello che dicevi tu a proposito di un libro o di un racconto che ti piaceva : sono uno splendore, Dick, proprio uno splendore ; è un amore quest'opera che ci hai lasciato con una vita di lavoro, è un amore."

(In memoriam)

Nessun commento:

Posta un commento