Il ramo spezzato, Karen Green
"È dura ricordare le cose tenere con tenerezza."
A volte capita che un ramo che sfiorava quasi il cielo si spezzi improvvisamente.
Esattamente dieci anni fa moriva David Foster Wallace, scrittore geniale, tormentato dai propri demoni. Karen Green è un'artista, una scrittrice eclettica, sua moglie.
In questo libro, un diario privato di frammenti poetici, collage di immagini, francobolli sbiaditi, rovinati o dai colori accesi, pagine bianche come urli muti, rompe il silenzio e prova a raccontare a suo modo l'assenza lacerante, lo smarrimento, il senso di vuoto, il dolore, la rabbia improvvisa, violenta, tutto quello che si prova dopo la perdita della persona amata, il non avere più tra le braccia quel corpo "che era il mio corpo da amare e da guardare".
Una storia che procede per lampi, frammenti di pura, abbagliante poesia, strappi, flash improvvisi di luce accecante e buio denso, raccontata da chi è sopravvissuto.
Una prosa poetica concreta, materica, fatta di oggetti desolati rimasti spaiati in quella casa vuota, il pavimento di sughero, la moquette sbiadita, un cuscino, un tubo azzurro, corvi cattivi consiglieri "bùttatibùttatibùttati", un giardino di rose e garofani, carote piccole come stuzzicadenti, semi e radici, pigne, conchiglie, i due cani, scarpe da tennis, calzettoni di spugna, lavandini gemelli, pillole colorate, travi di legno, un deodorante da usare con parsimonia, una scatola argentata di ceneri dense.
Un inventario dettagliato, improbabile collegamento tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Non viene mai fatto il nome dello scrittore "che profumava di vicinanza alla divinità" come ammette candidamente Karen, ma ci sono numerosi riferimenti concreti al suo suicidio, dettagli nitidi, intimi, laceranti.
Attraverso flashback improvvisi riemergono dal passato ricordi teneri, lo strofinarsi le pance una contro l'altra, gesto quotidiano di una tenerezza disarmante, il senso di colpa per non aver capito "lui ha detto: sto invecchiando morirò ho le mascelle cascanti, e io ho riso".
La confusione, lo stordirsi di pillole, l'avere i suoi stessi sintomi, chiedere aiuto al suo medico, che con brutale franchezza la sorprende "il dottore dice che se fossi stato così tra virgolette perfetto per me, probabilmente saresti ancora qui, non per offenderla eh".
Farsi ricoverare nella stessa clinica dove lui non voleva tornare perché aveva paura.
La rabbia "lo voglio incazzato coi politici, a disagio, non lo voglio in pace."
La cattiveria gratuita delle persone che sentono il dovere di ricordarle via email che "nessuno la conosceva prima che suo marito si togliesse la vita".
I consigli per provare a sopravvivere, la chiesa, un nuovo elettrodomestico, uscire di casa, una vecchia polaroid con foto di baci, lui che è ovunque, fulmini al faro, diretti da chi?
I genitori di lui, desideri struggenti e impossibili "vorrei sbattere forte queste due persone minute una contro l'altra e vedere se una collisione di DNA mi restituirà la mia vita."
Le domande senza risposta. "Sarà davvero con dio"? Rigorosamente minuscolo.
("E quando ha ceduto, è stata la fine o l'inizio della sofferenza?")
E poi quei frammenti privati, sconvolgenti.
La cena sul fornello intatta, i cani che aspettano la consueta passeggiata, quel rumore di ossa spezzate, un poliziotto solerte che chiede "perché l'ha tirato giù?"
Karen vaga stordita dai farmaci tra deliranti visioni, allucinazioni, voci e sogni incerti, ogni tanto si ficca in bocca una delle sue vecchie pillole blu quando il dolore sale e sommerge tutto.
"La medusa del lutto" rimane aggrappata tenace con i suoi tentacoli al cuore vuoto.
Una confessione dura, dolorosa, faticosa.
Un libro di splendida prosa poetica, dal ritmo frantumato, spezzato.
L'ascia per il mare ghiacciato dentro di noi.
L'ho letto in apnea, trattenendo il respiro, non è stata una lettura semplice a livello emotivo, ha riaperto vecchie ferite, mi ha fatto male come un pugno in pieno viso, in alcuni punti sentivo gli occhi bruciare e la gola serrata. Spesso mi fermavo, dovevo riemergere in superficie per qualche istante.
I numerosi spazi bianchi che intervallano i frammenti poetici come appiglio per non affondare, una tregua precaria momentanea, o forse la misura tangibile del vuoto e dell'assenza.
Un diario intimo sulla perdita, sulla morte della persona amata, su come i superstiti cercano di resistere e sopravvivere. Lo stordimento iniziale, i consigli pratici degli amici, la rabbia che sale come una marea furiosa, il senso di colpa, l'elaborazione del lutto, un percorso tortuoso e accidentato e infine il perdono.
Ci sono passaggi intensi, toccanti, talmente personali da lasciare senza fiato, mi sentivo un'intrusa nel leggerli, con quel dolore nudo lì davanti agli occhi, quelle travi, quella stanza, quel poliziotto.
Eppure sentivo che in qualche modo quel dolore mi apparteneva, era anche il mio.
Ho dovuto fare delle pause durante la lettura, quelle pagine bianche ad assorbire tutto lo strazio.
Ho letto questo libro molti mesi dopo averlo acquistato in libreria. Sepolto in fondo all'armadio, mi terrorizzava, in modo assurdo e irrazionale pensavo "questo libro mi farà del male, non voglio leggerlo."
Ho aspettato a lungo, l'ho aperto qualche giorno fa, stavo tirando fuori vecchie cianfrusaglie natalizie, lucette ingarbugliate e sul fondo dello scatolone un foglietto bianco con scritta nera che illustrava il contenuto dello stesso, utilissimo, conoscendo il mio confusionario disordine.
Quella grafia precisa e tranquilla, un pensiero improvviso, una strana sensazione e d'impulso ho lasciato lì tutto per aria, ho preso il libro e ho iniziato a leggere senza fiato.
Letto e riletto più volte, me lo portavo dappertutto come un amuleto, ce l'ho ancora adesso sul comodino, non voglio separarmene, mi appartiene.
"Le frasi sono state evidenziate solo per demolirmi quando le trovo. Le troverò per anni. Cadono dagli scaffali della libreria, svolazzano giù da chissà dove, arrivano con i pacchi postali. Me le ficco in tasca e continuo a pulire."
Frasi o un biglietto sepolto in garage, annotazioni sbiadite sparse tra libri polverosi.
Ho pensato al mio dolore, alla mia assenza, al mio vuoto. Succede proprio così, quell'incredulità nebbiosa, il senso di colpa, potevo fare di più? No, non potevi smettila di tormentarti, la rabbia furiosa, cucita addosso se soltanto qualcuno pronunciava quel nome, evocando cose che io avevo chiuso a chiave in un armadio irreale, perché ricordare faceva troppo male, non so come ma per mesi ho tenuto tutto chiuso in quell'armadio per sopravvivere, per andare avanti, affrontando un giorno dopo l'altro. Niente pillole, ma un lungo sonno e chiusura in me stessa, tagliando fuori il mondo intero.
Silenzio e solitudine per venirne fuori. (Ma se ne viene poi fuori?)
In particolare mi hanno colpito due frasi di questo libro, così vere, così intense, così mie.
Karen ha ragione quando scrive "è dura ricordare le cose tenere con tenerezza", soprattutto i primi tempi è quasi impossibile ricordare con tenerezza, i momenti belli spensierati felici sono coperti da rabbia, tanta rabbia e tristezza nera, è doloroso ricordare quella tenerezza che ora non c'è più, svanita chissà dove nell'aria.
E l'altra, un'immagine nitida che emerge chiaramente staccandosi da tutto il resto, quando rivolgendosi al cane che non vuole dormire con lei, gli sussurra nell'orecchio di velluto "tanto non torna."
Tre semplici parole, pesanti come macigni. Possiamo illuderci, stordirci, fingere che non sia successo, non pensare mai al passato o chiuderlo in un armadio ideale, ma arriva un momento preciso in cui ti rendi conto con lucidità che tanto non torna.
Per capire, assimilare tutto questo, ci vogliono mesi, anni e forse non si razionalizza mai completamente.
Per fare pace con quel passato, per provare ad aprire quell'armadio dove hai ammassato alla rinfusa tutti i tuoi ricordi, le tue emozioni, per provare a perdonare e a perdonarti, per ammettere stancamente "ma certo che te ne dovevi andare", quanta fatica costa, quanta forza ci vuole, quanto coraggio, quanto dolore per lasciare andare.
Non è una lettura facile questa, né semplice né dilettevole, ho dovuto combattere con i miei fantasmi, guardarli di nuovo in faccia e forse in questo commento sono andata ben oltre il libro stesso, ma avevo bisogno di mettere nero su bianco queste emozioni ancora oggi aggrovigliate e confuse.
Questo libro è una poesia purissima e lacerante, da leggere quando hai fatto pace con i tuoi demoni.
Imperdonabile assenza, vuoto abissale, perdita irrimediabile, i ricordi teneri e belli, briciole d'eterno da custodire gelosamente, per sempre parte di noi, provare ad andare avanti ammaccati, sopravvivere, forse vivere perdonando-perdonandosi.
Quando il ramo si spezza con un tonfo sordo, il cielo si capovolge e il nido resta vuoto.
Esattamente dieci anni fa moriva David Foster Wallace, scrittore geniale, tormentato dai propri demoni. Karen Green è un'artista, una scrittrice eclettica, sua moglie.
In questo libro, un diario privato di frammenti poetici, collage di immagini, francobolli sbiaditi, rovinati o dai colori accesi, pagine bianche come urli muti, rompe il silenzio e prova a raccontare a suo modo l'assenza lacerante, lo smarrimento, il senso di vuoto, il dolore, la rabbia improvvisa, violenta, tutto quello che si prova dopo la perdita della persona amata, il non avere più tra le braccia quel corpo "che era il mio corpo da amare e da guardare".
Una storia che procede per lampi, frammenti di pura, abbagliante poesia, strappi, flash improvvisi di luce accecante e buio denso, raccontata da chi è sopravvissuto.
Una prosa poetica concreta, materica, fatta di oggetti desolati rimasti spaiati in quella casa vuota, il pavimento di sughero, la moquette sbiadita, un cuscino, un tubo azzurro, corvi cattivi consiglieri "bùttatibùttatibùttati", un giardino di rose e garofani, carote piccole come stuzzicadenti, semi e radici, pigne, conchiglie, i due cani, scarpe da tennis, calzettoni di spugna, lavandini gemelli, pillole colorate, travi di legno, un deodorante da usare con parsimonia, una scatola argentata di ceneri dense.
Un inventario dettagliato, improbabile collegamento tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Non viene mai fatto il nome dello scrittore "che profumava di vicinanza alla divinità" come ammette candidamente Karen, ma ci sono numerosi riferimenti concreti al suo suicidio, dettagli nitidi, intimi, laceranti.
Attraverso flashback improvvisi riemergono dal passato ricordi teneri, lo strofinarsi le pance una contro l'altra, gesto quotidiano di una tenerezza disarmante, il senso di colpa per non aver capito "lui ha detto: sto invecchiando morirò ho le mascelle cascanti, e io ho riso".
La confusione, lo stordirsi di pillole, l'avere i suoi stessi sintomi, chiedere aiuto al suo medico, che con brutale franchezza la sorprende "il dottore dice che se fossi stato così tra virgolette perfetto per me, probabilmente saresti ancora qui, non per offenderla eh".
Farsi ricoverare nella stessa clinica dove lui non voleva tornare perché aveva paura.
La rabbia "lo voglio incazzato coi politici, a disagio, non lo voglio in pace."
La cattiveria gratuita delle persone che sentono il dovere di ricordarle via email che "nessuno la conosceva prima che suo marito si togliesse la vita".
I consigli per provare a sopravvivere, la chiesa, un nuovo elettrodomestico, uscire di casa, una vecchia polaroid con foto di baci, lui che è ovunque, fulmini al faro, diretti da chi?
I genitori di lui, desideri struggenti e impossibili "vorrei sbattere forte queste due persone minute una contro l'altra e vedere se una collisione di DNA mi restituirà la mia vita."
Le domande senza risposta. "Sarà davvero con dio"? Rigorosamente minuscolo.
("E quando ha ceduto, è stata la fine o l'inizio della sofferenza?")
E poi quei frammenti privati, sconvolgenti.
La cena sul fornello intatta, i cani che aspettano la consueta passeggiata, quel rumore di ossa spezzate, un poliziotto solerte che chiede "perché l'ha tirato giù?"
Karen vaga stordita dai farmaci tra deliranti visioni, allucinazioni, voci e sogni incerti, ogni tanto si ficca in bocca una delle sue vecchie pillole blu quando il dolore sale e sommerge tutto.
"La medusa del lutto" rimane aggrappata tenace con i suoi tentacoli al cuore vuoto.
Una confessione dura, dolorosa, faticosa.
Un libro di splendida prosa poetica, dal ritmo frantumato, spezzato.
L'ascia per il mare ghiacciato dentro di noi.
L'ho letto in apnea, trattenendo il respiro, non è stata una lettura semplice a livello emotivo, ha riaperto vecchie ferite, mi ha fatto male come un pugno in pieno viso, in alcuni punti sentivo gli occhi bruciare e la gola serrata. Spesso mi fermavo, dovevo riemergere in superficie per qualche istante.
I numerosi spazi bianchi che intervallano i frammenti poetici come appiglio per non affondare, una tregua precaria momentanea, o forse la misura tangibile del vuoto e dell'assenza.
Un diario intimo sulla perdita, sulla morte della persona amata, su come i superstiti cercano di resistere e sopravvivere. Lo stordimento iniziale, i consigli pratici degli amici, la rabbia che sale come una marea furiosa, il senso di colpa, l'elaborazione del lutto, un percorso tortuoso e accidentato e infine il perdono.
Ci sono passaggi intensi, toccanti, talmente personali da lasciare senza fiato, mi sentivo un'intrusa nel leggerli, con quel dolore nudo lì davanti agli occhi, quelle travi, quella stanza, quel poliziotto.
Eppure sentivo che in qualche modo quel dolore mi apparteneva, era anche il mio.
Ho dovuto fare delle pause durante la lettura, quelle pagine bianche ad assorbire tutto lo strazio.
Ho letto questo libro molti mesi dopo averlo acquistato in libreria. Sepolto in fondo all'armadio, mi terrorizzava, in modo assurdo e irrazionale pensavo "questo libro mi farà del male, non voglio leggerlo."
Ho aspettato a lungo, l'ho aperto qualche giorno fa, stavo tirando fuori vecchie cianfrusaglie natalizie, lucette ingarbugliate e sul fondo dello scatolone un foglietto bianco con scritta nera che illustrava il contenuto dello stesso, utilissimo, conoscendo il mio confusionario disordine.
Quella grafia precisa e tranquilla, un pensiero improvviso, una strana sensazione e d'impulso ho lasciato lì tutto per aria, ho preso il libro e ho iniziato a leggere senza fiato.
Letto e riletto più volte, me lo portavo dappertutto come un amuleto, ce l'ho ancora adesso sul comodino, non voglio separarmene, mi appartiene.
"Le frasi sono state evidenziate solo per demolirmi quando le trovo. Le troverò per anni. Cadono dagli scaffali della libreria, svolazzano giù da chissà dove, arrivano con i pacchi postali. Me le ficco in tasca e continuo a pulire."
Frasi o un biglietto sepolto in garage, annotazioni sbiadite sparse tra libri polverosi.
Ho pensato al mio dolore, alla mia assenza, al mio vuoto. Succede proprio così, quell'incredulità nebbiosa, il senso di colpa, potevo fare di più? No, non potevi smettila di tormentarti, la rabbia furiosa, cucita addosso se soltanto qualcuno pronunciava quel nome, evocando cose che io avevo chiuso a chiave in un armadio irreale, perché ricordare faceva troppo male, non so come ma per mesi ho tenuto tutto chiuso in quell'armadio per sopravvivere, per andare avanti, affrontando un giorno dopo l'altro. Niente pillole, ma un lungo sonno e chiusura in me stessa, tagliando fuori il mondo intero.
Silenzio e solitudine per venirne fuori. (Ma se ne viene poi fuori?)
In particolare mi hanno colpito due frasi di questo libro, così vere, così intense, così mie.
Karen ha ragione quando scrive "è dura ricordare le cose tenere con tenerezza", soprattutto i primi tempi è quasi impossibile ricordare con tenerezza, i momenti belli spensierati felici sono coperti da rabbia, tanta rabbia e tristezza nera, è doloroso ricordare quella tenerezza che ora non c'è più, svanita chissà dove nell'aria.
E l'altra, un'immagine nitida che emerge chiaramente staccandosi da tutto il resto, quando rivolgendosi al cane che non vuole dormire con lei, gli sussurra nell'orecchio di velluto "tanto non torna."
Tre semplici parole, pesanti come macigni. Possiamo illuderci, stordirci, fingere che non sia successo, non pensare mai al passato o chiuderlo in un armadio ideale, ma arriva un momento preciso in cui ti rendi conto con lucidità che tanto non torna.
Per capire, assimilare tutto questo, ci vogliono mesi, anni e forse non si razionalizza mai completamente.
Per fare pace con quel passato, per provare ad aprire quell'armadio dove hai ammassato alla rinfusa tutti i tuoi ricordi, le tue emozioni, per provare a perdonare e a perdonarti, per ammettere stancamente "ma certo che te ne dovevi andare", quanta fatica costa, quanta forza ci vuole, quanto coraggio, quanto dolore per lasciare andare.
Non è una lettura facile questa, né semplice né dilettevole, ho dovuto combattere con i miei fantasmi, guardarli di nuovo in faccia e forse in questo commento sono andata ben oltre il libro stesso, ma avevo bisogno di mettere nero su bianco queste emozioni ancora oggi aggrovigliate e confuse.
Questo libro è una poesia purissima e lacerante, da leggere quando hai fatto pace con i tuoi demoni.
Imperdonabile assenza, vuoto abissale, perdita irrimediabile, i ricordi teneri e belli, briciole d'eterno da custodire gelosamente, per sempre parte di noi, provare ad andare avanti ammaccati, sopravvivere, forse vivere perdonando-perdonandosi.
Quando il ramo si spezza con un tonfo sordo, il cielo si capovolge e il nido resta vuoto.
***
"Nella parte della malattia di nella salute e nella malattia non siamo affatto morti di noia nella luce verde sedano della nostra stanza col soffitto aperto e le travi cremose che fermati qui si collegano alle travi esterne sulle quali sono sbocciate le rose fermati qui e dove hai pensato a me o forse hai chiamato il mio nome oppure hai chiamato mamma oppure hai chiamato l'impulso sbagliato o casuale."
"Piume che cadono dal cielo come talco, pentole di ferro battuto che fumano poesie sul soffitto della cucina, tu svanisci lentamente dalla cena finché sulla tua sedia resta una camicia bianca immacolata. Mi fai ciao mestamente da ogni finestra. Rinasci nella neve come un animale innocente, ora felice. Sei una macchia di petrolio sull'oceano, ma vista da un aereo la catastrofe ha uno splendore barocco. Ieri notte hai attraversato in macchina tre Stati con una persona che conoscevi appena, raccontando la verità dal sedile del passeggero, col finestrino mezzo abbassato."
"Ho pochi desideri e ancor meno ambizioni. Sogno di starmene sulla riva del mare e non vedere le pieghe delle sue orecchie in ogni conchiglia."
" Voliamo via dal mondo, no, come angeliche schegge di proiettile, ma allora perché quaggiù è tutto così pesante?"
"Almeno adesso è
lo voglio incazzato con i politici, a disagio, che cerca di manipolarmi per ottenere favori che gli farei comunque. Lo voglio che cerca gli occhiali, che tenta di non venire, che fa - parola orrenda- del diarismo, con un pezzetto di spinaci incastrato fra il canino e la gengiva, che mi rimprovera per la logorrea, o perché non sto zitta. Non lo voglio in pace."
"Quello marrone ancora non vuole dormire con me anche se gli sollevo l'orecchio di velluto e gli dico: Guarda che non torna. Mi sembra sempre che dire che è morto significhi fargliela passare liscia per qualcosa."
"L'anno scorso ho dipinto la nostra porta di rosso in onore del Giorno dell'Indipendenza, in onore di un ritorno a casa. Sono contento di essere vivo, hai detto, sono contento di essere a casa. Questa è un'immagine abbastanza facile da visualizzare: scalciare via le pigne dal vialetto tortuoso, il colore vivido delle macchie sulle mie scarpe, noi quando abbiamo aperto la porta."
"Potrei amare un altro viso, ma perché?"
"Nessuno ride alle mie battute forte come te."
"Io è deperibile, non posso è deperibile, aiutarti è deperibile, le radici sono deperibili.
Questa cosa non la so concludere."
Questa cosa non la so concludere."
Nessun commento:
Posta un commento